24.2.12

Hostel 3

Titolo: Hostel part III
Regia: Scott Spiegel
Sceneggiatura Michael D. Weiss, Eli Roth
Paese: U.S.A.
Anno: 2011

Eccoci al terzo capitolo e la domanda che sorge spontanea, soprattutto in virtù dell'uscita in home video del film senza passare per le sale (in Italia qualsiasi genere di spazzatura etichettata come "horror" passa per le multisale), è: potrà dirci qualcosa di nuovo questo film? Potrà aggiungere qualcosa ai precedenti, o è veramente l'ultimo colpo di coda per fare introiti sfruttando un titolo di potenziale successo?

 Le prime scene del film sanno di deja-vù, ma tempo qualche minuto e ci scappa un sorriso: finalmente il gioco si inverte. Quella che sembrava la vittima (americana) predestinata, ecco che si spoglia della sua innocenza e si fa carnefice. Il film non finge di essere innocente, ma rende subito omaggio ai suoi due predecessori e a chi se li è visti. L'altra novità, la prima, è che sono gli ospiti, qui, a essere gli assassini di cui diffidare. Ospiti della loro stessa America (siamo a Las Vegas), e non di qualche ostello nell'Est Europa (ricordiamo Bratislava e Praga nei primi due film). Non a caso un grande specchio troneggia sula parete della camera, uno specchio che riflette da subito l'immagine del carnefice, come a dirci: chi è il mostro? Ma siamo noi! E proprio dietro a quello specchio (a quella immagine-identità riflessa) ecco che c'è una porta nascosta che dà sulla strada, sulle attività assassine e a scopo di lucro dell'organizzazione.


Terminato l'incipit, la storia ci racconta di una coppia di (futuri) sposini felici che sta per convolare a nozze. Prima però lo sposo dovrà fare il classico addio al celibato tra fiche, fiches e alcool. La sua guida in questo universo di sballo sarà il suo caro amico Carter, che rivestirà anche il ruolo di testimone dello sposo. Il problema è che il testimone voleva essere lo sposo, e questo, oltre che dalle prime battute, emerge dalla presentazione del triangolo amoroso-familiare (Immagine 1 e 4).

I futuri sposi e l'arrivo di Carter (Immagine 1)
Ammetto che, date le premesse, temevo che Hostel 3 si trasformasse in un qualche apologo proibizionista e moralista, della serie c'è il Matrimonio, loro vanno all'addio al celibato a sballarsi e questo comporterà una punizione per coloro che hanno trasgredito ed esagerato. Per fortuna mi sbagliavo, e già dall'arrivo dei quattro amici (sposo, amico-leader, amico-zoppo/moralista, amico infoiato) ecco che Las Vegas viene mostrata come una città a due piani, una metropoli dal doppio volto (proprio come il tipo dello specchio nell'incipit): un volto patinato, sorridente, luminoso e felice in superificie,  un volto sporco, violento, buio e oscuro sotto le strade, nei cunicoli del sottosuolo e nei sotterranei. Gli stessi sotterranei che nascondono enormi gabbie in cui sono rinchiuse le prede dell'élite hunting club, e che fanno da contraltare a una città ripresa dall’alto: musica, donne, soldi, divertimento, luci, tutto a pagamento ("Tette e culi per non pensare al mutuo, e quando tornerò a casa guarderò mia moglie negli occhi e le dirò che non sono mai stato qui").
Una regia televisiva, degna di qualche serie made in Mtv, lascia spazio a qualche battuta moralista ("Questo cazzo di posto è l’incarnazione del male") in cui non mancano provocazioni virili ("Forse è un po’ troppo per questi bravi ragazzi di periferia il nostro locale").
I quattro ragazzi di Phoenix, tra un'infinità di culi ripresi in primo piano (una vera ossessione che percorre tutta la pellicola questa ripresa di culi e tette, in un connubio pulsionale di sesso&morte), vedono procedere tutto per il verso giusto, finché un taxi guidato da un extracomunitario li porta in un luogo periferico. Lì bussano ad una porta e lo sposo viene preso, incappucciato e legato ad una sedia. La regia indugia sui dettagli, crediamo che la tortura stia per cominciare, e invece ecco che siamo ancora stati presi in giro. Niente torture, quei cappucci e quella violenza non ricordano più Abu Ghraib e Guantanamo. Questa è una sedia del piacere, in cui un uomo americano che ha già tutto può avere champagne ed escort a volontà.
Un freno, una castrazione, lo sposo riesce però a imporsela: non è un santo, infatti aveva già tradito la futura moglie, ma da allora ha promesso che avrebbe tenuto a bada il salsicciotto. E così fa, andando a prendere una boccata d'aria. Il taxista è lì che aspetta e ancora il film vive di una discreta ambiguità: il pericolo è dentro o è fuori? Quel locale è la macelleria o dobbiamo avere poca fiducia nel taxista? Il film, per differenziarsi dai precedenti, insitlla nello spettatore questa attesa angosciante, in cui tutto scorre rapidamente, ma in cui non ci sono punti di riferimento per capire dove diavolo sta il "male".
Finalmente gli amici si svegliano nell'hotel, la mattina seguente, e scoprono che uno di loro, l'infoiato Mike, è scomparso e non risponde al cellulare (spento per tradire senza essere disturbato). Mike è recluso in una delle gabbie, intimidito dai metodi nazisti-militari delle guardie che usano la forza bruta e il paralizzatore elettrico per fare di lui ciò che vogliono (altri). Le guardie, tutte rappresentate e rappresentanti etnie da bronx (afroamericani e sudamericani) lo fanno perché sono pagate per farlo, e tanto gli basta. I soldi, lì come nei casinò e con le escort, sono l'unico strumento di potere.
Mike viene piazzato sulla celebre sedia, che stavolta ricorda molto la sedia elettrica, sia per il fissaggio all'altezza della fronte, sia perché è sita è sita di fronte a una platea di spettatori. Questa nuova modalità di tortura, offerta ad un ampio pubblico, somiglia molto a uno show, e ricorda la modalità di visione di un film. Ecco una delle importanti novità di questo Hostel che, se dal punto di vista registico – attoriale – di dialoghi e di montaggio (ovvero di autocastrazione, perché le scene spaltter sono poche poche, e lesinando su di esse di è andato a tradire lo spirito, o forse il senso, dei precedenti capitoli) è un film mediocre e televisivo, riesce invece a essere notevole per queste innovazioni della tortura.
Lo show della tortura in diretta (Immagine 2)
In primis, la tortura nei primi capitoli si configurava come lo sfogo di una pulsione bestiale, il lato mostruoso di questi uomini e donne, di questi ricchi in cerca dell’intrattenimento in grado di soddisfare realmente le loro pulsioni. Hostel era il luogo del sottosuolo, il luogo del rimosso, della parte dell’Io nascosta, dove si poteva essere bestie, predatori, senza nascondere la propri natura. Ma questo avveniva in un rapporto segreto, un rapporto di 1 contro 1 (o poco più): il cliente e la sua vittima. Stop. In Hostel part III abbiamo invece una novità: il ricco non si sporca più le mani, non cede più alle sue pulsioni, ma decide di accomodarsi in poltrona e guardare. Proprio come noi spettatori. Non ricorda forse un cinema quella sala con tante poltrone, al cui centro troneggia una vetrata che sembra proprio lo schermo rettangolare?
Quindi il torturatore si fa voyeur, guardone, ma guardone attivo: ecco che il film fagocita altri elementi interessanti della contemporaneità, assistiamo a uno spettacolo mediato (altri uccidono e torturano in nostra vece), ma possiamo assolutamente avere una visione multimediale, ipermediata e attiva: diversi schermi indugiano sui dettagli, mostrano al meglio ciò che dalla vetrata non si vede bene, nulla può sfuggire e nulla può non essere visto o visto male. Inoltre ecco la possibilità di scommettere in diretta sulle torture: quante frecce serviranno per uccidere il ragazzo? Dove colpirà per primo il folle chirurgo? Il pubblico (i ricchi, l’aristocrazia del film) può scommettere, non a caso siamo a Las Vegas, sulla vita dei poveri malcapitati, quasi sempre (a eccezione dei protagonisti, come scopriremo) persone sole e senza parenti, esseri umani che vivono a lato della società. Ecco che l’aristocrazia, usando il potere dei soldi (con cui paga guardie, cameriere, ecc) riesce a dare un ruolo alle vittime della società capitalista: carne da macello. Ed è interessante, anche se non viene spiegato dal film, capire chi siano i perpetratori delle torture. Non sembrano proprio essere i ricchi, quelli sono al di là del vetro ad assistere allo spettacolo tra cocktail, tette, culi e schermi di pc sui quali scommettere. No, probabilmente quelli che fanno torture appartengono alla classe media, né ricchi né reietti, semplicemente dei “professionisti” (dottori, tiratori, ecc) al soldo del miglior offerente.
Perché in Hostel tutto è merce, tutto si può comprare.
E quando le classi dominate provano a ribellarsi, nemmeno riescono più a capire chi è (scusate il termine obsoleto) il “padrone” (un film, che non c’entra nulla con l’horror, interessante a riguardo è Louis Michel).
Tornando al film, osserviamo finalmente come avviene la prima tortura:
-         inizialmente si configura come tortura psicologica, Mike non sa dov’è, nessuno gli spiega nulla e si trova legato davanti al pubblico mentre un uomo vestito da chirurgo gli gira intorno con un trapano.
-         poi la tortura diviene fisica: questa volta viene usato un bisturi e viene rimossa l’epidermide dal viso di Mike, poi si chiude il sipario (fine dello spettacolo, del grand guignol)

Una scena del genere non è nuova all’horror contemporaneo, l’abbiamo vista in Jeepers creepers, in Martyrs e nell’eccezionale Red white and blue di Simon Rumley. In ogni film lo scuoiamento ha significati (narrativi e non) differenti, in Hostel sembra solo uno dei tanti modi possibili di far andare avanti lo show.
I tre ragazzi, della classe medio-alta (tranne uno: Carter), vanno a cercare Mike dalla escort con cui era, e qui  si meravigliano delle abitazioni delle prostitute: le ragazze vivono in un parcheggio di caravan, sono povere, e probabilmente per quello devono vendersi a dei coglioni come loro.
Dopo essere inorriditi per lo squallore del luogo, ecco che vengono colti in flagrante e minacciati. Questa scena ci fa scoprire che anche Nikki, la escort che era con Mike, è scomparsa, ma ci ribadisce anche un’altra cosa: secondo i ragazzi tutto si fa per i soldi. Infatti il primo commento-pensiero è che le minacce non siano fatte dai proprietari di casa per difendersi e per trovare la loro amica, ma per “spillare altri soldi”. Nel mentre, l'aristocrazia annoiata dell'élite huntig club, che sembra abbia già fatto e provato tutto, non può fare a meno di configurare lo show come tale: Nikki viene vestita da cheerleader, perché non basta più una ragazza, tutto è già stato fatto (ed è già stato visto, ivi compresi noi spettatori dell’horror, chiamati in causa per la nostra perversione e volontà di vedere, e vedere torture “nuove”). Interessante notare che, tra il pubblico, i ricchi non sono solo americani, ma la platea è assolutamente multiculturale e si comprende parlando la lingua dei dollari. Nikki viene sbranata da alcuni insetti carnivori, mentre gli lcd trasmettono in diretta, ma nonostante questo dovremo attendere il finale per vedere qualche scena estrema paragonabile ai capitoli precedenti. Qui è concessa una ripresa estrema che mostra un insetto uscire dalla trachea della defunta Nikki, è come se la mdp fosse collocata all’interno della sua gola, sintomo di un cinema che non si pone più limiti di ripresa (come già capita a serie come C.S.I.).
Il luogo che nasconde l'Elite hunting club Las Vegas (Immagine 3)
La escort amica di Nikki, in una delle poche frasi del film che restano, spiega ai ragazzi (e a noi) come funziona tutto in quella città, Las Vegas (o, forse, potremmo dire in America, o nel nostro Occidente): “In questa città è tutto finto, non c’è nulla di vero e nessuno conosce nessuno”.
Anche le istituzioni (la polizia) hanno perso il loro ruolo, ovvero essere al servizio della comunità, dei cittadini: servono diversi giorni perché si attivino per cercare uno scomparso. Questa umanità falsa, egoista, trova conferma negli strumenti che utilizza: a Justin arriva un sms e poi un mms di Mike (ovviamente è uno dei ricchi che usa il suo cellulare fingendosi Mike). L’mms ritrae Nikki morta, ma sembra davvero che stia dormendo e sia con Mike. L’accusa non è alla tecnologia (cellulari, internet, ecc), ma al modo in cui certe persone la usano (o possono usare) per i propri scopi. Fattosta che gli sms li portano all’hostel dell’inizio, ed ecco ancora un team di rapitori che fa irruzione (da dietro lo specchio, ennesimo rimando a tutto ciò che sta dietro la nostra immagine riflessa, ovvero la nostra identità nascosta) e prende i tre amici e la ragazza.
Non tarda il grande colpo di scena: Carter viene liberato dalla gabbia, grazie al suo tatuaggio "cinofilo". Carter è uno di loro. Ecco che Hostel veicola altre novità: il bastardo assassino, il ricco feticista non è qualcosa di altro dagli americani, non è qualcosa di altro dalle vittime stesse, ma è parte di noi. Della nostra comunità, e probabilmente lo conosciamo pure.
E Carter, l’amico di vecchia data, ecco che si trasforma rispondendo ai suoi amici increduli: “è l’Elite hunting club. Significa riservato ai soci”.
Ecco qui l’altro colpaccio di Hostel III, la realtà che emerge nei momenti chiave: se quando le cose vanno bene tutti siamo amici e uguali, ecco che nei momenti di crisi, di pericolo, le disuguaglianze sociali emergono e tornano a galla le differenze sociali, le celebri classi: i dominatori, ovvero chi possiede capitale economico, è libero e può scegliere, mentre gli altri se ne stanno in gabbia in attesa della morte.
Ieri non conta più, è l’oggi (l’adesso) che si configura come lotta per la sopravvivenza, una lotta impari, ovviamente.
Carter, a colloquio col gestore del club, si lamenta: dovevano prendere solo lo sposo, non gli altri. Ma Carter, pur essendo un ottimo cliente, è un pesce piccolo lì dentro (dove tutto, vita e morti, sono pianificati con un preciso business plan) e deve accontentarsi di quello per cui ha pagato: uccidere il suo migliore amico che sposa la ragazza che lui voleva avere (anche qui i rapporti umani sono rappresentati come possessivi, come se la sposa non fosse altro che una merce da possedere e da scopare, e qui torna in mente il magnifico A l’interieur). Carter si scola un drink mentre si gode con indifferenza la morte del suo amico menomato Justin, anche qui vediamo loro (in particolare l’assassina) vedere le torture, ma a noi spettatori è concesso poco, e qui si continua a tradire il senso di torture porn dei primi capitoli e anche la critica che si intavola col discorso del palco e degli schermi lcd.
Lo sposo, vestito in smoking bianco, viene fatto accomodare nella sala delle torture. Ecco che la verità (che in realtà ci era già stata mostrata con le immagini all’inizio del film) viene a galla: il sipario si apre, Carter brandisce una motosega e, prima di usarla, spiega che non si emoziona più come prima a uccidere (a proposito dei discorsi fatti in precedenza…), e per farlo (per emozionarmi, per provare piacere) devo uccidere qualcuno a me vicino.
"Perché me lo merito?"
"Perché hai ciò che volevo io!" (eccola qui la verità, il possesso della bella moglie).
Il problema è che Carter, come detto, conta poco e i potenti possono fare a meno di lui e dei suoi soldi: così lo spettacolo migliore, il più divertente su cui scommettere, è dato dalla lotta tra i due amici. Scott, lo sposo, viene liberato, riesce ad avere la meglio e fuggire armato dal “fottuto spettacolo” e dai “bastardi” (like us) che lo guardano. Si scatena il caos, altri prigionieri si liberano e allertano la polizia: viene avviata l’autodistruzione e bisogna fare fuori i prigionieri-testimoni. Il finale è un’esplosione di splatter, con sangue che sgorga e braccia mozzate. Carter riesce a salvarsi la pelle e a chiudere all’interno del cancello Scott che è condannato dall’esplosione.
Carter "si fa strada" tra i due a inizio film (Immagine 4)
Carter e lei, potenziale nuova coppia,  e tra loro le ceneri di Scott (Immagine 5)
Il finale, per quanto scontato (probabilmente avremmo apprezzato di più un finale privo di vendette), si configura come l’inizio: stavolta la coppia è composta da lei e Carter, e tra di loro ci sono le ceneri del defunto Scott. Potrebbe nascere una bella famiglia sulle ceneri della menzogna, della violenza e dell’egoismo, ma invece no, arriva Scott mezzo ustionato e perpetra la sua atroce vendetta. Il garage è allestito come sala delle torture, un tosaerba ucciderà Carter (anche qui la visione è castrata).
Il piccolo uomo medio Scott impara la lezione e persegue la sua personale vendetta, ovviamente all’interno della sua proprietà (casa sua), con al fianco la sua donna e in un luogo sotterraneo in cui stanno gli scatoloni del rimosso.

AF

Lo trovi in: Dvd dal 22/2; in rete.

Tag: i capitoli precedenti; Cose molto cattive

21.2.12

Insidious

Titolo: Insidious (id.)
Regia: James Wan
Sceneggiatura: Leigh Wannel
Paese: U.S.A.
Anno: 2011

Il nuovo film di James Wan (regista del primo Saw), utilizzando il grande classico della casa infestata e del bambino (quasi) posseduto, non delude le - basse - aspettative. Non siamo certo di fronte a un capolavoro, come poteva essere Saw, ma questo film riesce a incuriosire e intrattenere, senza prendersi troppo sul serio.

I titoli di testa ci introducono, senza se e senza ma, alla tematica principale del film: l'Altrove. Un mondo alternativo, parallelo, abitato da fantasmatiche - e assolutamente infami - presenze. L'inizio del film non esita a presentare anche le altre due tematiche dominanti: la casa e il tempo. La casa, che saranno poi le case, non sarà(nno) il vero problema dei protagonisti (pur restando luogo per eccellenza della paura contemporanea), mentre la questione del tempo porterà alla lenta risoluzione dell'enigma. Non a caso il pendolo ci viene mostrato infinite volte durante il film, e anche la famiglia è presentata con l'uso di fotografie e con il padre che allo specchio si osserva i capelli divenuti bianchi. Una famiglia (padre professore, madre compositrice) con due bambini e una bebè, in una nuova casa. Tutto va bene, per circa venti minuti di pellicola, poi il piccolo Dalton sente una specie di richiamo proveniente dalla soffitta. Una volta lì, sale su una scala e cade sbattendo la testa. Dalton è in coma (anche se non ci sono vere spiegazioni mediche per il suo stato vegetativo, vedi L'esorcista, rimando obbligato soprattutto nella prima parte del film), ecco qui il cambiamento con cui dovrà convivere la famiglia.

I veri problemi però cominciano tre mesi dopo: Dalton è a casa, non più in ospedale, e col suo ritorno comincia la paura, fatta di strani rumori e grida nel walkie talkie con cui la madre controlla la bimba piccola al piano di sopra (il sentire, senza vedere - tipico di molti "film di paura" - è sempre affascinante, questa castrazione dello sguardo e senso di pericolo e attesa, funzionano sempre). Grazie al fratello di Dalton scopriamo i suoi giri notturni - nonostante il coma - per casa, poi cominciano le visioni, i rumori notturni, le intrusioni... i genitori di Dalton sono impotenti, la madre è terrorizzata, il padre (da buon egoista) rincasa il più tardi possibile. La famiglia trasloca per la seconda volta, si rivolge a un prete, ma solo dopo altri sogni e terribili visioni, i coniugi si affidano a una esperta dell'occulto. Dopo quasi un'ora di film, ecco arrivare due ragazzi che sembrano i figli nerd dei Ghostbusters e che, con i loro strumenti, riescono a vedere. Confermando che lì serve l'esperta Elise, non ci sono dubbi. Grazie a lei, al suo vedere Oltre (lei riesce a fare l'identikit del demone che vorrebbe impossessarsi del corpo-contenitore di Dalton), si arriverà a capire che il problema non è la casa, ma è il bambino. 
Dalton è infestato.
Il problema si sposta così da un tòpos all'altro: non più un film sulle presenze in villetta, ma un film sul male incarnato dal figlio (salta subito alla mente, oltre a L'Esorcista, Omen, tanto per dirne uno...). Dalton, dunque, si è perso nell'Altrove, un mondo in cui non c'è tempo, un mondo parallelo popolato da demoni e da anime erranti. Lo scopo di questi demoni, e per questo non riusciamo a odiarli davvero - nonostante il loro raccapricciante aspetto -, è vivere, o rivivere. Usare Dalton, per tornare a fare i loro comodi sulla terra. Il padre di Dalton però resta scettico di fronte a questa medium, arrivando a cacciarla di casa a male parole. La sua idea cambia solo quando si accorge che l'identikit del demone corrisponde ai disegni fatti da Dalton, e allora si che la medium può tornare: è giunto il momento del contatto. 

In una lunghissima scena, oltre sette minuti, ecco che la troupe della medium mette in scena l'Altrove, per poterlo capire (un po' come il cinema cerca di fare con la realtà), e per fare parlare Dalton attraverso la medium. Anche qui, come in molti horror contemporanei, nella confusione generale, l'unica certezza di avere visto qualcosa si ha grazie a una videocamera digitale: è proprio attraverso l'occhio meccanico di una macchina che riescono a vedere il demone.
La svolta alla situazione viene data dal passato, dal ricordo (ecco la centralità del fattore-tempo): il padre di Dalton visse la stessa identica situazione quando era bambino. Lui non se ne ricorda, ma tutto Era già successo: lo testimoniano sua madre e le fotografie (ancora una volta) che mostrano l'inquietante presenza della "signora con il velo". Un padre smemorato che ha tramandato i problemi al figlioletto innocente, non può che essere lui, Josh, ad andare in missione nell'Altrove per trovare suo figlio e rimetterlo "dentro" al suo corpicino. Grazie a Josh è data anche a noi spettatori la possibilità di fare un giretto nell'Altrove: un po' Dante Aligheri, un po' videogame alla Silent hill, questo mondo parallelo è buio, fumoso, popolato da spiriti maligni e da famiglie degne di David Lynch. Dopo le peripezie fatte di scontri, artigli alla Nightmare, musichette alla Jeepers Creepers, ecco che padre e figlio ritrovano la via verso i loro corpi.
Qualcuno è tornato, è rientrato nei corpi reali, ma chi? Josh e Dalton si risvegliano e, siccome "Un'immagine vale più di mille parole", la medium Elise vuole affidarsi (ancora una volta) alla tecnologia, allo sguardo di una macchina (che, evidentemente, è più affidabile di quello umano nel cogliere la verità), per capire chi c'è dentro il corpo di Josh. Fa appena in tempo a scattare un'istantanea che Josh gli salta addosso e la strangola. Non abbiamo bisogno della foto per scordarci l'happy-end. L'istantanea ci viene comunque mostrata, Josh è, ora, "la donna con il velo", e chiama a sé l'adorata mogliettina. Il male è entrato definitivamente nella famiglia, come dazio inevitabile da pagare, male tramandato nel tempo di padre in figlio, e viceversa. Solo la donna col velo, dopo i titoli di coda, spegnerà la candela lasciandoci nell'oscurità dello schermo nero. Ci siamo divertiti, gli effetti sonori e i demoni che saltano fuori all'improvviso ci hanno fatto sobbalzare, niente di nuovo, ma sicuramente qualcosa di un tantino diverso dal solito prodotto medio americano. La casa, la soffitta, le scale, il buio, il passato che ritorna, le presenze, i disegni del bambino, il pendolo che oscilla tra passato e presente, tra realtà e Altrove, insomma un mix di tòpoi già visto, ma nonostante ciò, durante la visione, resta la sensazione che da un momento all'altro potrebbe succedere di tutto.
E questo ci piace un bel po'.

AF

Lo trovi in: dvd; sul web.

16.2.12

EXTRA: I soliti idioti

Titolo: I Soliti Idioti - Il Film (id.)
Regia: Enrico Lando
Sceneggiatura: Martino Ferro, Francesco Mandelli, Fabrizio Biggio
Paese: Italia
Anno: 2011

Un'altra escursione nel mondo dell'estremo: qui siamo nell'estremamente grottesco, nell'estremamamente idiota. Al di là del fenomeno commerciale che ha permesso a un fenomeno tv, amplificato dal web, di raggiungere le sale (facendo incassi record: 5 milioni il primo weekend), cosa si può dire di questa comicità?


Il film in sé non è costruito male, la narrazione sotto forma di viaggio padre-figlio riesce a unire in maniera abbastanza coerente le varie gag (fatta eccezione per la scena Gianluca - Smutandissima con relativo terremoto, che pare proprio non avere senso. Soprattutto perché non va a sterminare atrocemente tutta quella schifosa umanità italica rappresentata), gli altri personaggi invece non se la cavano granché, sono assolutamente ripetitivi e poco efficaci, si salva la coppia borghese che ama matrimoni e "tennissino". In realtà, riguardando la terza serie tv, ci si accorge che il film non ha nulla da regalare ai veri appassionati: quasi tutte le gag sono già state proposte su piccolo schermo, e non basta inserirle in un contesto nuovo per far divertire. Inoltre diversi personaggi, penso soprattutto ai preti e ai bambini-vandali sono stati totalmente soppressi nella trasposizione per grande schermo. Tornando ai personaggi, più che al film in sè, occorre interrogarsi sulla loro forza dirompente, su ciò che va oltre la risata e la gag. Questi personaggi, in particolare Ruggero, Gianluca e la coppia omosessuale (Fabio e Fabio), eccedendo nella rappresentazione spietata e grottesca di alcuni italiani, costruendo macchiette e lavorando sugli stereotipi, riescono a rompere qualche tabù o sono fini a una risata da una-botta-e-via?
Ruggero mette in scena una generazione di sessantenni in un modo nuovo, non c'è l'alone onirico (da sogno sexy in hotel a cinque stelle) e buonista alla Christian De Sica, dove alla fine si fa festa e ci si riconcilia coi figli. Ruggero è un personaggio tanto macabro e vomitevole quanto - nelle sue caratteristiche - reale. Menefreghismo, ricerca perenne del piacere, prevalere sull'altro a ogni costo, maleducazione, nessun rispetto per le regole (eppure medaglie appuntate al petto e sulla macchina). Ma non gli basta essere tutto ciò, rimprovera e obbliga il figlio (un bravo ragazzo, assolutamente idealista e mantenuto, ma con una certa umanità di fondo) a imitarlo: puttane, alcool, droga, furti, risse, tutto sotto la macro-categoria di virilità italiana. E così Ruggero ruba un'ambulanza e si lamenta col figlio perché in un incidente non c'è scappato il morto ("Gianluca ma in che Paese viviamo?!"), mente al figlio e lo tradisce (fingendosi malato terminale) per portare a termine un gioco (una scommessa da un euro) fatta con un suo amico, ha amici tali e quali a lui (come l'avvocato che lo libera con la ruspa) ed è Gianluca ad apparire inadatto alla vita italiana e al sistema valoriale che soggiace ad essa. Gianluca è indubbiamente un tonto figlio di papà, privo di esperienze e con un cuore grande. Solo il viaggio con il padre può trasformarlo per davvero, facendolo divenire un degno erede della tradizione italiana. Non mancano le scene da cartolina con paesaggi e monumenti (Colosseo, Altare della patria) sullo sfondo, perché se l'Italia è apparenza fatta di luoghi-simbolo da cartolina, questo deve valere anche per i personaggi che la abitano. Questi mostri sono davvero così deformati e deformanti? Le cose che fanno sono davvero così distanti dalla cronaca quotidiana?

Parlando della coppia borghese c'è poco da dire, I soliti idioti sanno di essere tali, perciò riportare dialoghi banali e reali ("è IL matrimonio, non importa di chi, ci vanno tutti e quindi anche noi") senza aggiungervi pathos è la cosa migliore che possano fare. Sentire parole più cinematografiche, più ricercate, pronunciate da Mandelli-MariaLuce farebbe sicuramente incazzare. Rimane epica la scena dello scuolabus, quando MariaLuce è in crisi di panico razzista per via dei tanti figli di extracomunitari, ma non può gridare e fuggire, perché deve fingere di avere una mente aperta, multiculturale. Fingere, fingere, fingere, anche nella finzione, eccola l'Italia. Una farsa grottesca ed estrema.

La terza coppia che è necessario analizzare è quella degli omosessuali. Premettendo che, tra Chiesa e Stato, l'Italia non è certo un Paese aperto, libero e contro l'omofobia, diamo un'occhiata alla rappresentazioni di Fabio e del suo moroso omonimo incinta.
I due sono macchiette estreme, Fabio-Mandelli è il gggiovane, cellulare sempre in mano, autoscatto continuo, poco collegato alla realtà. Lo stesso vale per Fabio-Biggio che, in nome di una ricercata uguaglianza con gli etero, si convince di essere incinta e non perde l'occasione per attaccare i presenti sul tema dell'omossessualità (oltre a vedere il suo amato Fabio come un'icona sexy irresistibile). Questa comicità è sicuramente più "matura" del popolo (e pubblico) italiano. Qui si dà per scontata l'uguaglianza, e si vanno a colpire le macchiette di genere, ma anche le ossessioni e i "presunti problemi" di una coppia di deficienti che, per puro caso, è gay. Senza perdersi in discorsi che non porterebbo a nulla, atteniamoci a due scene del film: quella della chiesa e quella del tetto. Nella prima Fabio-Biggio è in Chiesa e si rivolge alla statua di San Sebastiano. All'improvviso il corpo martoriato, morente, sacro e nudo del santo si trasforma in Fabio-Mandelli. La chiesa e i suoi santi sono, in un baleno, detronizzati, e lì appare la deformazione grottesca del suo amato, che si muove come una diva, vento in faccia e sguardo ammiccante. Questo connubio gay - Chiesa, che potrebbe apparire "normale", è abbastanza dirompente nella cultura e nella rappresentazione italiana. Qui non si fanno giri di parole, ma si va dritti "al cuore". Ovvio che gli omosessuali non sono quella roba lì, non sono come quei due lì, ma quei due cosa ci danno in più rispetto ad altre rappresentazioni? Su questo bisognerebbe interrogarsi: meglio la rappresentazione di un omosessuale triste, vittima, incompreso, ecc (film da cui si esce in lacrime, se finiscono male, e in cui si esce con il sospiro gioioso se finiscono bene) o la rappresentazione demenziale e assurda fatta da questi soliti idioti (può realmente rompere qualche ancestrale tabù italiano? Può, dandole per scontate, sorpassare certe cose e trattare così scanzonatamente l'argomento? E, facendolo, potrebbe fare percepire - più o meno consciamente - l'omosessualità come componente assolutamente normale dell'umanità?)?
Concludo con la scena del bacio, in un tripudio di cazzate, canzoni e folla applaudente, Fabio-Mandelli dimostra per la prima volta il suo amore e limona duro (un bel bacio a stampo ben ripreso) con il suo amato. Questo bacio non fa ridere, questo bacio sembra qualcosa di nuovo, di diverso, di mai - o poco - visto. E allora, a quanto pare, sono quantomai necessari due idioti per farci vedere un bel bacio gay al cinema, senza remore, senza fronzoli, senza perbenismo.

E in un Paese di idio..., ehm, di tradizionalisti, che passa le serate davanti a Sanremo, non potevano mancare loro: I soliti idioti, con la loro scenetta e canzone ripresa dal film. Così come non poteva mancare il commento old style, ovvero ipocrita, di Morandi che difende con i denti la sua immagine pubblica tutta sorrisoni e virilità da ragazzo di provincia: "Non sono contro gli omosessuali, ma preferisco Bèlen". Bah, io preferisco I soliti idioti.


AF

13.2.12

Red State

Titolo: Red State
Regia: Kevin Smith
Sceneggiatura: Kevin Smith
Paese: U.S.A.
Anno: 2011


Un piccolo gioiello. Ecco il commento a caldo che segue la visione di Red State, opera realizzata da quel Kevin Smith che fino a oggi conoscevamo solo per la satira e i dialoghi pungenti dei vari Clerks.
Red State è un film che non ti aspetti, è un'opera che porta con sè una sorta di equilibrio. Proprio l'equilibrio nella composizione e nella narrazione, e la perizia con cui vengono trattati i temi affrontati, rendono il film godibilissimo, in grado di non stancare e (addirittura!) stupire lo spettatore.
La storia. Tre giovani ragazzi in cerca di sesso facile, tramite internet, riescono a trovare una matura signora che è pronta a soddisfare ogni loro voglia. Una volta raggiunto il camper dove vive la donna, i tre ragazzi vengono drogati e imprigionati, finendo tra le grinfie di un pastore fondamentalista cristiano, e della sua setta, che vogliono ripulire il mondo dall'immoralità. La polizia, guidata da un ottimo John Goodman, una menzione speciale alla sua interpretazione, arriva sul posto in seguito ad una segnalazione e si scatena l'inferno.
Le persone fanno le cose più strane quando credono di averne il diritto. Ma fanno cose ancora più strane quando credono semplicemente. Niente di più vero.
Queste frasi pronunciate da John Goodman, sul finire della pellicola, riassumono alla perfezione i contenuti del film e ciò che ci vuole comunicare Kevin Smith.
Il regista si schiera contro ogni tipo di fondamentalismo religioso. Muove una profonda critica a tutti i gruppi pseudo-religiosi che si fondano sul razzismo e sull'incoerenza, ma in particolare sull'ignoranza. Una critica che non si ferma al solo livello religioso, "cristiano" in questo caso, ma che attacca una forma mentale. Una forma mentale che si basa sul credere di avere ragione. In questa maniera la critica si sposta su un piano sociale più generale, a (o, forse è meglio dire contro) una società, quella americana, che cova e lascia sviluppare al suo interno un male che, se non viene tenuto a bada, se non viene limitato (o castrato), può realmente portare alla catastrofe..


Una critica, quella mossa da Smith, che diventa una vera accusa nei confronti di una società che non riesce a conoscere i suoi figli, che ha una "paura fottuta" del vicino e in cui i fantasmi dell' 11/09 riaffiorano prepotentemente all'orizzonte
Onestamente Red State cerca, e in parte riesce, a dare uno sguardo sull' America di oggi. E' una sorta di finestrella alla quale ci si affaccia per vedere un po' com'è la situazione giù in strada. Kevin Smith ci lascia un affresco sociale di non difficile interpretazione, impreziosito da un'abbondante spruzzata di satira, che non fa mai male.
Red State ci mostra un' America che ha paura di se stessa, in cui odio e razzismo vanno in giro (o forse è meglio dire in chiesa) a braccetto.
L'opera va a parare anche in altri ambiti, primo tra tutti quello della politica (del potere, della soppressione violenta, dell'uso gratuito e indiscriminato delle armi per rimuovere questi figli sgraditi dall'America, aiutati da una legislazione che lascia molta libertà a FBI e compagnia per massacrare chi, in nome di un prsunto dio, sparge sangue sulle strade a stelle e strisce. Ecco ancora i postumi, qui reali, tangibili, legislativi con cui la "democrazia" si fa garante dell'ordine post-Torri Gemelle), ma è normale che non tutte le tematiche possano essere approfondite da parte del regista, eppure da questo marasma di argomentazioni, tutte sfiorate in superficie, ecco nascere un buon film. Un film che consigliamo per trascorrere una sana serata horror, in grado di strappare sorrisi, ma anche di fare scambiare quattro chiacchiere su tematiche importanti. Lo consigliamo anche (e soprattutto) perché non troverà mai una distribuzione, se non (fooorse) in dvd, nel nostro Paese. Ma nonostante questa (potenziale) invisibilità, rimane uno dei film più interessanti che il 2011 a stelle-sangue e strisce ci ha regalato.
Concludiamo con una delle tante spassosissime citazioni:

"Quanto credi gli sarà costata quella immensa croce?"
"In termini di denaro o di buonsenso?"

E vista la recente cronaca italiana (anche se qui, si fa sempre tutto per ottenere qualcosa in cambio) questo film potrebbe riguardarci un poco di più, ma speriamo di no: http://www.uaar.it/news/2012/01/11/spettacolo-blasfemo-milano-francia-anatema-ultra-cattolici/

mp/af


LO TROVATE: in dvd (solo in lingua con sottotitoli in inglese, o in altre lingue), sul web.

8.2.12

EXTRA: J.Edgar

Titolo: J. Edgar
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Paese: U.S.A.
Anno: 2011

Negli ultimi anni prolifera un certo tipo di cinema "politicamente" impegnato che vuole dirci molto su come la politica si avvalga del mondo della comunicazione (dei mass-media) e della finzione per ottenere consensi: sto pensando ai film di George Clooney regista (da Goodnight, and goodluck al recente Le idi di Marzo), al pluri-premiato Il discorso del re, in parte al The iron lady sulla Thatchere mi fermo a questi pochi esempi degli ultimi mesi per segnalare questa tendenza nella quale rientra a pieno titolo anche l'ultima opera di Eastwood.


Due annotazioni preliminari: non si può non disprezzare il trucco pessimo, che rompe la sospensione dell’incredulità dello spettatore (Ah, guarda come è truccato male Di Caprio!), fatto di mascheroni chiazzati e lenti a contatto scure che azzerano le potenzialità espressive degli attori. E non parliamo del doppiatore under14 di Di Caprio, una voce bianca assolutamente insopportabile. Okay, dopo questo sfogo, passiamo al film.
La storia messa in scena da Eastwood ci racconta parecchie cose: ci racconta la storia dell’Fbi attraverso le vicende del suo ideatore; ci racconta  la sua storia famigliare, ovvero il suo mega complesso edipico e di sottomissione alla madre (degno di Psycho); ci racconta la sua omosessualità e la violenza con cui la castra, la occulta e la reprime; ci racconta la biografia di un uomo che è realmente esistito; ci racconta l’evoluzione del potere e del controllo (l’ideazione di archivi, la centralità del controllo dei dati, delle informazioni), ma più di ogni cosa, ci racconta la storia della creazione di un immaginario collettivo. Prima attraverso la realtà, poi attraverso i mezzi della finzione narrativa. Questa pellicola, essendo appunto un film (opera di finzione) che ci racconta la storia di un uomo realmente esistito e dell’Fbi (che tuttora esiste e agisce), parla anche di se stessa: del suo statuto di testo, di oggetto prodotto dall’uomo e quindi privo di oggettività e di verità totali. Vediamo in che modo.
Nel primo tempo assistiamo a due proiezioni all'interno di cinema affollati: la prima vede proiettato un discorso del giovane J. Edgar (che parla della necessità di sconfiggere il crimine e le mafie), e il pubblico reagisce fischiando e dicendo: vogliamo il film!! Ma questo pubblico in cerca di distrazione e divertimento, quale film attende? Siamo negli anni Venti, anni di gangster movie, e il pubblico (che a breve vivrà la Grande Depressione) vuole vedere questi gangster nati dal nulla prendersi con la forza le città. La realtà è già abbastanza dura là fuori, che almeno il cinema ci risparmi dalla realtà e dalle notizie di cronaca, ovvero da J. Edgar.
Tutto questo non passa certo inosservato, e Egdar capisce che per far breccia tra le persone, tra gli spettatori, non è sufficiente (anzi, è controproducente) la realtà, occorre agire come fa Hollywood: con la finzione. Con la costruzione, fuori e dentro i cinema (e servendosi dell’intero comparto mass mediatico), di poliziotti-eroi, positivi, forti, cool. Bisogna recitare per rendere eccitante la lotta al crimine e per rendere partecipe la massa, occorre creare miti, non è più sufficiente la realtà.
Il film evolve su questo piano, step by step: ecco che sui cereali compare un distintivo delle forze dell’ordine, ecco che Edgar comincia a presenziare agli arresti dei criminali, ecco che chi può rovinare l’Immagine della polizia viene allontanato, ecco che le foto e i film cominciano a raccontare qualcosa di diverso, qualcosa in cui l’uomo medio e i bambini vogliano riconoscersi: i poliziotti-eroi. Questa rappresentazione funzionale, che vive nella realtà (non solo al cinema), ha un suo rovescio: l’Fbi essendo così amato, o comunque percepito come benefico e positivo dall’opinione pubblica (o dal pubblico…), può arrogarsi il diritto di agire senza freni né regole, convinto di perseguire un bene superiore. Ma non addentriamoci oltre negli intrighi interni alla Casa Bianca, e passiamo al finale del film.
Il finale vede i due vecchi amanti seduti a tavolino, e succede una cosa eccezionale: l'amato compagno di Edgar gli ricorda chi è e cosa è la sua creatura, l’Fbi. E facendolo, più che a Edgar, sembra che parli a noi spettatori, mettendoci in guardia sia sull’Fbi (e qualsiasi sistema di potere e controllo) sia sulle rappresentazioni (quindi il film contesta sé stesso, dicendo: attenzione, questo è soltanto un film su J. Edgar e l’Fbi, non è la Verità). L’uomo ricorda a Edgar che il sistema che hanno costruito è fondato sulla finzione, sulla menzogna: è marketing, è recitazione, è messa in scena quella fatta dall’Fbi per avere potere, e gli cita il caso Dillinger che è esemplare a riguardo. Non siamo eroi, abbiamo architettato una grande farsa per racimolare attenzioni e potere, tutto qui. Ricordatelo. E lo stesso dice a noi: quando uscirete dalla sala non crediate di sapere chi è l’Fbi e chi è J. Edgar, semplicemente avrete visto una sua interpretazione soggettiva (di Eastwood e di chi ha scritto il film), tenete il cervello acceso poiché sta a voi vagliare altre fonti e capire che la verità non è certo quella che ci passa piacevolmente davanti agli occhi a 24 fotogrammi al secondo.

Mass media à rappresentazione di una realtà, di una storia à creazione di un immaginario collettivo.

Questo ci ricorda Clint, teniamocelo bene in mente.

AF

Lo trovate: al cinema (forse in qualche rassegna, e vale la pena rivederlo); a breve in dvd.
Tag: Goodnight and goodluck, Le idi di marzo, Il discorso del re, The iron lady, ... 

Dead silence

Titolo: Dead Silence (id.)
Regia: James Wan
Sceneggiatura: Leigh Wannel
Paese: U.S.A.
Anno: 2007

Può un horror parlarci di omologazione sociale?
In altre parole, può un horror riuscire a trasmettere uno dei fenomeni maggiormente sottovalutati della società contemporanea?
Sicuramente chi conosce, o è semplicemente appassionato di horror francesi (basti vedere le opere della "nouvelle vague sanguinaria" che vanno da Alta tensione a Martyrs, per intenderci) non avrà difficoltà a dare risposta a tale quesito.
Ma andiamo con ordine e partiamo dalla storia. Dead silence ci racconta una storia fin troppo semplice, ma comunque di forte impatto, soprattutto in virtù di ciò che è stato detto in precedenza. Una giovane coppia riceve un pacco misterioso, senza mittente, e al suo interno vi trova un pupazzo da ventriloquo. Mentre il  ragazzo va a prendere del cibo al ristorante cinese sotto casa, lei viene brutalmente assassinata e sfigurata. Il giovane, sicuro che il responsabile sia il pupazzo da ventriloquo, comincia le ricerche che lo portano nella sua città natale, alla ricerca di Mary Shaw, la creatrice del pupazzo, linciata anni prima a causa della scomparsa di un ragazzino, la quale rivive come presenza omicida all'interno dei pupazzi.


Un intreccio fin troppo banale, che rimane forse l'unico punto debole della pellicola, ma che riesce a dare vita ad una serie di considerazioni interessanti. Considerazioni che lasciano intravedere una sorta di critica alla società contemporanea. Infatti, i pupazzi da ventriloquo, rappresentano la società stessa. Una  società omologata, i cui membri seguono standard e concetti (o preconcetti) creati e insitllati da un qualcuno o da un qualcosa di esterno. Il quale agisce dietro le loro spalle o, sarebbe meglio dire utilizzando la metafora del ventriloquo, dietro le loro spalle e li obbliga a comportarsi secondo schemi pre costituiti.
In questa maniera, secondo questa chiave di lettura, la società si ritrova ad essere composta da una serie di pupazzi da ventriloquo e coloro che cercano di ribellarsi a tale schema si ritrovano con la bocca chiusa, serrata. Un po' come le vittime di Mary Shaw, le quali non rimanendo in silenzio vengono sfigurate, con la bocca deturpata e la lingua staccata.
Quindi ritornando al quesito posto all'inizio dell'articolo: "Può un horror parlarci di omologazione sociale?" la risposta, in questo caso, pare essere affermativa. E Dead Silence riesce a rendere l'idea alla perfezione. Un film che ricorda, per costruzione e per capacità estetica, quel "Drag me to hell" di Sam Raimi, altro piccolo gioiello horror che riesce a darci uno sguardo sulla società contemporanea.
In definitiva Dead Silence si identifica come una buona pellicola. Un po' scarna a livello di plot e di interpretazione da parte degli attori principali (il pupazzo da ventriloquo risulta essere più espressivo del protagonista), ma che rimedia grazie ad un'ottima capacità tecnico-estetica da parte del regista, quel James Wan che avevamo già apprezzato dietro la macchina da presa in "Saw", e soprattutto  grazie ai contenuti che si celano dietro ad una visione superficiale.

mp.

Lo trovi in: dvd; in rete.

5.2.12

EXTRA: Skyline

Skyline: i fantasmi mai sopiti di un’America impaurita.



Titolo: Skyline (id.)
Regia: Strause Bros.
Sceneggiatura: Joshua Cordes, Liam O'Donnell
Paese: U.S.A.
Anno: 2010


Dopo la visione di Skyline, film degli Bros. Strause, già autori(??) del più che evitabile Alien Vs. Predator 2, film che è comunque una spanna più su rispetto al primo capitolo - in cui recitava (si lo so, meriterei delle frustate per aver usato questo termine) il nostro più che discutibile Raul Bova - ci si aspetterebbe il solito polpettone fantascientifico made in U.S.A. 
Invece, se si considera tutta la pellicola fatta esclusione per gli ultimi 8 minuti (precisamente quando i due innamorati vengono risucchiati all’interno della nave madre aliena), Skyline è un’opera di indubbio interesse. Purtroppo per noi, d’altro canto, non possiamo non tenere in considerazione tutta la pellicola. Ed ecco che “a causa” di quegli 8 minuti in più Skyline perde di valore. Si inabissa, accostandosi ad una serie di pellicole “American <<fantascienza>> style” in cui il valore e il messaggio che viene veicolato risulta essere sempre il solito: “Gli U.S.A. sono i più forti e cazzuti al mondo” (anzi, in questo caso, dell’universo). Un po' come quell’Independence Day, opera pre-fantasmi e paure 11/09/2001, che mostrava tutti i valori, su cui si basava questa sorta di supremazia americana nei confronti dell’universo. Come dimenticare il presidente degli Stati Uniti sopra un aereo che guidava la contraerea il giorno dell’Indipendenza. E’ indubbio che Independence Day era, e rimane anche tutt’oggi, un film di chiara matrice repubblicana. O come dimenticare Will- brand/marchio- Smith entrare nella navicella aliena, con una navicella aliena, e, con l’aiuto del fido Jeff- MalcomdiJurassickPark- Goldblum mettere un virus nei sistemi informatici (e nelle menti?) degli alieni invasori di quella magica “terradiLibertà” (??) che sono gli Stati Uniti d’America.
Da questa breve digressione su Independence Day riprendiamo proprio la parte finale, la quale si avvicina molto a livello contenutistico a Skyline. 
In entrambi i casi, gli umani riescono a entrare nel “ventre” alieno e distruggere dall’interno tutta la loro organizzazione, in maniera seppur diversa in Skyline rispetto a Independece Day. Infatti, il ragazzo protagonista, una volta che gli è stato estirpato il cervello (non in senso simbolico, ma in senso fisico), ecco che resiste: le sue funzioni cerebrali si ricordano cosa era e chi era nel passato e lo inducono a ribellarsi, a non essere “schiavo”, a salvare la sua prole umana. A questa ribellione contro l’invasore succedono i titoli di coda, che ci bloccano e non ci fanno capire come andrà a finire (siamo di fronte ad un lancio per il secondo capitolo? Le premesse ci sono tutte, in puro stile “jump seriale” U.S.A.[jump seriale in senso di salto, bloccare la narrazione per ricominciarla in un secondo capitolo, dare una sorta di incipit allo spettatore]). 


Eppure, quel tocco sul naso da parte dell’alieno (umano) alla propria ragazza, un segno di intimità, ricorda qualcosa. Non è per caso una chiara derivazione - non si può parlare di citazione - di quella rosa fatta con i resti dell’immondizia, sul finire di pellicola, già visto in quel capolavoro che è District 9? Le assonanze ci sono tutte. Sono entrambi segni di intimità. Sono entrambi gli ultimi residui di una vita passata. Una vita passata “umana” che rimane perpetua nell’animo dell’alieno. Un alieno che è comunque un diverso. Un alieno che non viene riconosciuto immediatamente, ma che grazie ad un piccolo gesto ecco che fa riaffiorare tutti i ricordi nei cari a cui il suo cervello, la sua mente, è legato. Non più la sua parte materiale. Solo la sua parte “mentale”. Eppure Skyline non può assolutamente confrontarsi, né tantomeno avvicinarsi a District 9. District 9 ha una costruzione ritmica. Non è un semplice film di fantascienza, è un film che parla di disuguaglianza. Una disuguaglianza che non può che colpire meglio rappresentandola in Sudafrica, terra madre dell’apartheid. Pur essendo, d’altronde, una produzione made in U.S.A.
District 9 è forse il film post 11/09 per eccellenza. E’ un film che ha superato quel trauma e grazie ad una messa in scena strepitosa e ad uno script di prim’ordine riesce a parlarci, riesce a trasmetterci la disuguaglianza sociale.
Skyline, purtroppo per noi, non è così. Skyline prova a superare quei fantasmi con tutte le sue forze, ma purtroppo non c’è la fa. Ricorda tanta cinematografia fantascientifica degli ultimi anni: passando da Transformers arrivando fino a L’Alba del pianeta delle scimmie
Skyline cavalca quest’onda mai doma. E fa dono, a noi spettatori, di un qualcosa che è trito e ritrito. Ma, tutto questo denota una debolezza. Ci mostra un’America che ha ancora paura dell’invasore. Ci mostra un’America che ancora non riesce a superare il suo trauma. Tutto ciò si può riassumere in una frase del film, quando il giovane Gerald- cervelloestirpato- prima di diventare alieno e il filo eroe U.S.A.- sergenteBatistadiDexter- si scambiano una battuta sull’origine degli alieni. Alla domanda:
“Secondo te cosa sono?” la risposta del filo eroe U.S.A.: “Che importanza ha?” racchiude e riassume a pieno questi tempi.
L’America ha paura. Una paura verso qualcosa o qualcuno. Non ha importanza. L’America deve aver paura. Siano essi i comunisti degli anni’50 e della guerra fredda o i musulmani degli anni’90 e Duemila, o gli alieni di Skyline di oggi, non è importante. Ciò che si nota è la paura per il diverso. Un’America e degli americani invasori, portatori, dentro la loro anima e nelle loro mani, di sangue innocente. Hanno costruito una civiltà e una cultura sul sangue e, oggi come nel passato, si ritrovano ad aver paura. Una paura non giustificata. Una paura di essere invasi da qualcuno o qualcosa più forte di loro. E dopo aver assistito all’evento “reale”, ma più “cinematografico” della storia: quell'indimenticato 11 settembre. Dopo essere stati colpiti al cuore della loro terra. Dopo più di 10 anni da quel tragico evento, ecco che l’America è ancora troppo debole e troppo impaurita per riuscire a riprendersi e superare le sue paure.
Skyline ne è la prova. Skyline rappresenta al meglio questo concetto.

mp.



Tag: Independence day, District 9, Transformers, L'alba del pianeta delle scimmie, Alien vs. Predator 2, World invasion, ...

Lo trovi in: in dvd; sul web.

Exorcismus Visto al RNFF 2011

Titolo: Exorcismus (La posesion de Emma Evans)
Regia: Manuel Carballo
Sceneggiatura: David Munoz
Paese: Spagna
Anno: 2010


Al Ravenna Nightmare Film Festival cominciamo con Exorcismus, e con tutti i pregiudizi che una trama fondata sulla possessione di una ragazzina porta con sé. Il “già visto” e il “è 'na schifezza” sono alle porte. Decidiamo di tenere a mente il consiglio di Rino Gaetano: non giudicare un film senza prima, prima vederlo. In fondo non è un seriale Made in U.S.A....



... e, infatti, la pellicola di Manuel Carballo sorprende, riesce a smentire i cliché del sotto-genere evitando l'eccesso di scene demoniache, e privilegiando gli aspetti più sociali del dramma che colpisce la giovane protagonista. Tutto comincia con Emma che si incide il palmo di una mano con il frammento di uno specchio (strumento utile a guardarsi - argomento sul quale ritorneremo - , a riconoscersi. Primo strumento di cui si servirà il demone per comunicare con lei), si punisce, si infligge una ferita e, facendosi del male, apre un varco al Male. Da quel taglio, al centro della sua mano, passerà il demonio, prendendosi progressivamente la vita dell'adolescente.
Perché la sedicenne Emma si è tagliata? Perché – come scopriremo – ha sentito il bisogno di rivolgersi al “male”?
È proprio qui che la storia raccontata per immagini da Carballo eccelle, senza scadere nella casualità o nel non-sense di dover trovare a tutti i costi una risposta sovrannaturale alla possessione. Il film va ad aggiungersi al filone degli horror contemporanei che utilizzano il genere (o un sotto-genere) per trattare problematiche concrete della società in cui viviamo. Emma, prima di incontrare il Male, sta male, soffre: è circondata da una società che fa di lei (e dei suoi amici) un'emarginata, ha un fratellino che passa interi pomeriggi davanti alla PlayStation e due genitori  interessanti unicamente alla carriera lavorativa. Genitori che lasciano i propri figli chiusi nei loro dolorosi silenzi, davanti ad una grande tv o al sicuro delle loro cuffie collegate all'Ipod. Exorcismus è, prima di tutto, un film sul rapporto genitori-figli, sulle colpe che hanno i primi nel non riuscire a creare un dialogo con i propri ragazzi. I genitori rappresentati da Carballo (sceneggiatura di David Muñoz) si scannano al primo dubbio, non perdono occasione per accusarsi l'un l'altro, senza essere mai in grado di ascoltare veramente i propri figli. In secondo luogo, il film, mette in scena la società contemporanea attraverso due mezzi di comunicazione imprescindibili come telefoni cellulari e videocamera digitale, e il rapporto dei personaggi con essi. Vediamo così Emma, quando sorgono i primi problemi, farsi visitare da uno psicologo che utilizza il metodo dell'ipnosi: la ragazza non va da sola alla visita, ma porta con sé il telefonino, grazie al qual chiama di nascosto la sua migliore amica che ascolta in diretta la seduta. Il cellulare viene usato come se potesse sostituire la presenza. Cosa che, ovviamente, non accade e infatti l'ipnotizzatore ne paga le conseguenze morendo, mentre l'amica di Emma ascolta “voyeuristicamente” le parole sataniche che custodiscono il segreto del malessere della protagonista. Un malessere che, dunque, non riesce a essere colto (dai suoi amici, dai suoi famigliari) quando si è faccia a faccia con Emma. Ancor più centrale è la presenza della videocamera digitale, che ha due funzioni principali: la prima è quella di testimoniare - come dirà anche lo zio prete di Emma - la realtà: quelle cassette mini-dv non sono altro che la prova dell'esistenza del demonio. Prove da impacchettare e inviare a Roma, al Vaticano. La seconda funzione, meno diegetica,  meno inerente alla trama della storia, riguarda il campo del visivo, dello sguardo: il guardare. Il ri-guardarsi. È proprio in questo modo che avviene, poco prima del finale, la catarsi di Emma. Quando la ragazza trova le mini-dv, debitamente nascoste dallo zio-esorcista, e le riguarda sullo schermo della videocamera, lei capisce, si convince, scopre la verità. O, meglio, le verità: scopre che suo zio si è servito di lei per avere una prova dell'esistenza di Satana, scopre che quella lì è davvero lei, che il male è in lei, è parte di lei. In definitiva, vedendosi, capisce chi è lei in quel momento: è davvero lei che ha fatto del male ai suoi famigliari, che ha causato la morte di suo fratello, che ha provocato il tentato suicidio della madre, è lei la scaturigine (e, attenzione, non l'origine) di tutti questi mali. Emma, presa coscienza di tutto ciò, decide di porre fine a questo male, prende quelle che crede siano le sue responsabilità e si infilza il ventre con una lama affilata. Emma si punisce, si accoltella, colpisce sé stessa – e non gli Altri – per ottenere la salvezza, il perdono (non a caso parlo di salvezza e perdono, termini legati alla controparte del demonio). La libertà. Dimostra di essere diversa dai suoi genitori, da suo zio, dalla religione, e dal sistema manicheo di bene/male che essa crea. Laddove non c'è male (come, ad esempio, nella giovane e “innocente” Emma dell'inizio) è il Bene a creare un suo contraltare, a dare modo alle persone di cercarlo e di trovarlo. La stessa religione, soprattutto incarnata dallo zio-prete, ovvero il “bene”, alimenta al massimo il male, dopo averlo creato (è grazie ai consigli dello zio che Emma riesce a evocare il demone), per testimoniarne l'esistenza, senza però avere mai prove sul fatto che il bene esista.
Alla fine, questo film, ci ricorda che non siamo altro che uomini. Quotidianamente cerchiamo le colpe in quello che fanno gli altri (come i genitori e lo zio danno la colpa al Diavolo, e a Emma, nel film), e riponiamo le speranze in qualcosa di Altro da noi (soprattutto in Dio), senza mai prenderci fino in fondo le nostre responsabilità di genitori, di figli, di esseri umani. Solo Emma, che si è assunta le sue responsabilità, riesce a salvarsi e a ricominciare, libera finalmente dal male.
Nel lungo piano-sequenza finale la vediamo spingere la sedia a rotelle su cui è seduta la madre, lungo un infinito viale alberato. Questa è un'immagine che resta, l'immagine dei figli che accompagnano i genitori lungo la strada del cambiamento.

AF

Lo trovi in: dvd (tedesco) con sottotitoli  in inglese; sul web con sottotitoli italiani.

Tag: ovviamente non dirò film a tema possessione demoniaca, perciò ci può stare qualche film horror in cui sia centrale l'incontro - scontro tra generazioni di figli e genitori(adulti): Eden lake, Ils - Them, ...

E a voi cosa fa venire in mente questo film?

4.2.12

BENVENUTI NEL DESERTO DEL REALE

4/2/2012.

72esimo compleanno per George A. Romero, e 44 anni trascorsi da quella indimenticabile Notte dei morti viventi. Una notte in cui veniva codificato un genere (lo zombie movie) che da allora ha dato alla luce parecchi figli, più o meno legittimi. Un cinema che, anno dopo anno, è riuscito a contestare la realtà che lo circondava.
BloodyChronicles non può che inaugurare alle 23.59 di oggi, rendendo omaggio a Romero, ma facendo anche un passo oltre, evitando i rischi di pensare sempre al passato remoto. Fare sì tesoro del passato, ma stare sempre con gli occhi sul presente, sul cinema e sulla realtà in cui viviamo.
Per capire cos'è questo blog usiamo la scena di un celebre film:
Quando Neo, il protagonista di Matrix, viene scollegato dal megacomputer che lo teneva prigioniero e lo illudeva di vivere nel mondo, Morpheus, il capo della resistenza, lo accoglie in un paesaggio di rovine bruciate: “Benvenuto nel deserto del reale!”.

I film e la realtà, dunque. La finzione, la rappresentazione su grande (e piccolo) schermo e il rapporto che questi film hanno con la realtà che ci circonda.
E se provassimo a interpretare questi film, andando oltre un giudizio di gusto (oltre il binomio: è un bel film! no, fa schifo!) e al di là della trama? Questi film di cosa ci parlano, e in che modo lo fanno?
In questi anni fatti di immagini e filmati, è ora di provare a fissare qualche punto fermo: non abbiamo nessuna verità (non siamo né Morpheus né Dio), ma crediamo sia proprio ora di cominciare a parlare di cinema, del cinema dei nostri giorni.
La realtà è difficile da comprendere, ma probabilmente alcuni film possono darci una mano ad allargare i nostri orizzonti di comprensione. Questo è il luogo giusto per parlarne, e poi allargare la discussione dove ci pare: al lavoro, al pub, in famiglia, sui social network. Scegliere di non accettare tutto quello che il mercato offre è il primo passo per cercare di essere più liberi e più coscienti, proviamo a farlo assieme!
Il linguaggio utilizzato nel blog vuole essere alla portata di tutti, senza interporre barriere tra grande pubblico e appassionati/studiosi. La bloodypedia dà una mano con alcuni termini più specifici, di modo che non ci siano barriere alla comprensione.
La domanda base è sempre la stessa, come ci ricorda questo sketch (in bassissima definizione) di Mai dire goal: ogni frase, ogni testo, ha più livelli di significazione, allora chiediamocelo per davvero: cosa avrà voluto dire?!

SCEGLIAMO - PARTECIPIAMO - DICIAMO LA NOSTRA!



Questo blog nasce in parallelo con un altro blog che si pone come obiettivo (condiviso) di fare il punto, sempre a livello interpretativo, sulla serialità: serie tv, ma anche film, per capire in che modo e verso dove ci porta questa tendenza a dilatare la narrazione in tante stagioni ed episodi.
E poi, queste serie, di cosa ci parlano?

Ecco a voi, ScannerSerial!

THE CHOICE





e ora, Fai la Tua Scelta!

     


(i primi post saranno online a partire da Mezzanotte!)