1.3.12

EXTRA: A.C.A.B.

Titolo: A.C.A.B.
Regia: Stefano Sollima
Sceneggiatura: Daniele Cesarano, Leonardo Valenti, Barbara Petronio, Stefano Sollima
Paese: Italia
Anno: 2011

Tutti i poliziotti sono bastardi. Cominciamo dal titolo, che è il medesimo dell'ottimo libro a cui la pellicola si ispira. Il titolo che racchiude in sé una logica manichea da tifosi (non solo da stadio), in cui si è tutti bastardi o tutti amici, fratelli. Un titolo, che ormai è una sigla che compare un po' dappertutto, a partire dalla canzone dei The 4-Skins degli anni Ottanta,  che racchiude in sé già un grido di odio e di violenza, che individua un macro-gruppo di nemici contro cui scagliarsi sempre, senza esitazioni e distinguo. Il romanzo-inchiesta di Carlo Bonini è cosa altra rispetto al film, non tanto in senso strutturale (ovviamente ogni arte e ogni narrazione ha le sue regole e caratteristiche), quanto in senso di significati. Il libro dedica un intero capitolo alla ferita ancora sanguinante della scuola Diaz di Genova, con una specie di montaggio che alterna narrazione, regolamento della celere e referti medici dei ragazzi brutalmente e inspiegabilmente massacrati quella indimenticata notte. Il libro parte da lì, per raccontarci una società ultra-violenta, per porre in forma di racconto (in parte) finzionale questioni molto problematiche e all'ordine del giorno da ormai una quindicina d'anni. Questo è un libro che va letto per provare a orientarsi nella complessità (ridotta a una questione di tifo e schieramenti da parte dei potenti, che siano mafiosi o politici) dell'Italia degli ultimi dodici anni. Concentriamoci però sul film, sul modo in cui racconta e mette in scena diverse questioni scottanti, riuscendo a rappresentare la violenza senza spettacolarizzarla, riuscendo a non essere mai accondiscendente verso questi uomini (poliziotti e non) soli e cinici, abbandonati nelle loro borgate e per le strade della capitale


A.C.A.B. è stato visto da moltissimi italiani, a molti è piaciuto, ad altri assolutamente no. Non so se questo sia uno di quei film che si possono solo amare o odiare, credo che se interpretato possa essere molto apprezzato, sia perché è un film che scorre bene, a livello narrativo, sia perché racconta molto bene l'Italia (e Roma), i suoi riti, i suoi miti e il suo popolo. In poche parole: noi e la nostra epoca.
Padre costretto a dare soldi ingiustamente,di fronte agli occhi della figlia
Un po' come, in maniera completamente diversa, hanno fatto L'ultimo terrestre e Corpo celeste. Stiamo parlando di italianità, di riti e miti del nostro paese, di come una ragazzina vi può maturare sessualmente e culturalmente, di come un uomo di quasi quarant'anni possa accogliere un cambiamento epocale giusto e meritocratico (gli alieni, nel caso del film) e di come possa superare l'eterno senso di colpa, che accomuna tutti e tre i film, tipico di giovani che crescono, e sono cresciuti, sovrastati da un crocifisso e da esempi educativi (i genitori) assolutamente deprecabili.
Icone figlie di abitudine e ignoranza, ma i "padroni a casa nostra"
di oggi sono meno fieri e convinti di quello che credono
sia il loro esempio storico
A.C.A.B. è infatti, in primo luogo, un grande film sull'educazione. Ultimamente il The tree of life di Malick raccontava la storia di un uomo, Sean Penn, che arrivato a una certa età si interroga sul senso della (sua) vita, e facendolo comincia a ricordare. A ricordare di un padre violento e individualista (Brad Pitt), che addestrava allo stesso modo i propri figli. Una figura paterna che poi cola a picco verso la fine del film quando, perdendo il lavoro, si sente un completo fallito e arriva a capire che forse le cose importanti della vita erano altre, e crescere i figli in quel modo è stato un errore. I film in cui ci si interroga sul senso della vita sono all'ordine del giorno, anche il Melancholia di Von Trier pare irrimediabilmente contaminato dall'accettazione che l'uomo, e ciò che produce, è destinato a scomparire, perciò tanto vale rivalutare i propri legami e i propri modi (e stili) di vita. Questi anni sono pregni di un cinema esistenzialista, in parte depresso, e che pare alla ricerca di motivi validi per vivere la propria vita, la propria felicità di individui (argomento caro alla cultura americana, e non alla nostra. Non a caso la nostra cultura, e le nostre leggi, si fondano sul concetto di famiglia, che porta con sé determinate conseguenze). Questo cinema esistenzialista si interroga anche sui genitori, sui "padri", sul loro ruolo educativo/esemplare, e sulle loro colpe, perché in fondo qualcuno ha traghettato fino a questo punto il mondo (e l'Italia) nei decenni intercorsi tra i vari boom economici e gli anni Novanta. E ora possiamo definitivamente ritornare ad A.C.A.B., e all'incipit del film.
L'esordio cinematografico di Sollima inizia con tre sequenze che si intrecciano tra loro grazie al montaggio, presentandoci tre dei personaggi principali: abbiamo l'incidente di Favino/Cobra; la retata in borghese di Negro al supermercato; Mazinga che va a riprendere suo figlio alla centrale di polizia.
In questa lunga notte capitolina, il film comincia appunto con il buio, assistiamo alla vendetta personale di Cobra (che già in sella alla sua moto cantava "celerino figlio di puttana", come se quel canto rituale fosse così legato alla sua identità e alla sua percezione di sé da non poterselo mai scrollare di dosso), una vendetta che mette subito uomo contro uomo, carne contro carne, senza istituzioni, senza leggi, se non quella del più forte. E già qui la questione è problematica, perché Cobra è un poliziotto, potrebbe arrestarlo quell'inetto ubriaco, ma invece lo mena di santa ragione, come a mettere da subito le cose in chiaro: in Italia la giustizia non basta, o forse non esiste, perciò serve questo, e a questo ci siamo abituati. In sottofondo ecco che scorre la celebre canzone che fece da colonna sonora agli ultimi festeggiamenti per il mondiale 2006. Le altre due scene sono indubbiamente meno pregnanti, ma altrettanto significative, perché in esse ci vengono presentate due coppie di padri e figli: Negro e Mazinga da un lato e i loro figli dall'altro. Questi due padri sono dipinti come distratti, menefreghisiti, capaci di lasciare i loro figli a farsi del male mentre si dedicano unicamente al loro lavoro. Infatti la bambinadi Negro si ferisce cadendo dal carrello con cui sta giocando, mentre Giancarlo è in questura col volto tumefatto.
Lo Stato è un palazzo, distante dalla gente
I titoli di testa ci trasportano a una vestizione della celere, che ricorda molto una scena di Rambo. La celere, una volta pronta, affronta alcuni lavoratori che manifestano. Proprio nella scena della manifestazione viene introdotto un altro personaggio, Spina, che si rivelerà essere il protagonista del film. Il nostro percorso nel mondo della celere, percorso empatico e fisico, lo faremo al suo fianco. Spina parte male, e dopo aver ferito uno degli scioperanti si scontra con il gruppo, con la famiglia della celere (interessante come Sollima,da vero conoscitore dell'italianità, sia nella serie Romanzo criminale, che qui, dia la priorità alla tendenza familistica italiana, declinata in chiave di machismo e amicizia virile: gli amici del Libano sono una famiglia, così come la squadra in cui Spina deve entrare). Sul cellulare Ducato della celere  viene impartita a Spina una prima dose di educazione alla celere che si configura in alcune regole figlie di nonnismo e cameratismo: qua non ti siedi. E nemmeno qua. Tu non conti (ancora) nulla.
Solo un vero e proprio rito punitivo/iniziatico vedrà Spina rinascere (anche figurativamente, emergendo dal parabrezza del furgoncino bianco), e solo allora sarà accettato dal gruppo. Dal branco. Dalla famiglia, che vera famiglia non è, perché il legame è fisico e mentale, ma non di lignaggio. Questa famiglia è ben rappresentata dal muro dipinto da Cobra in caserma: questa rappresentazione storica-sacra-leggendaria, di una legione di guerrieri romani dotati di caschetto da celere, che trasuda riferimenti alla gloriosa Roma e alla mitologia ricreata e (ab)usata dal fascismo che stupidamente si trascinano ancora oggi. Una mitologia che ritroviamo nella celere, perché effettivamente i poliziotti sono dotati di elmi, scudi, e si muovono un po' come i legionari dell'antica Roma. Sempre restando nella capitale è interessante tirare un filo rosso che collega Alemanno e il PdL, esplicitamente mostrato nella campagna elettorale rappresentata nel film (la sua facile demagogia a tema sicurezza e promesse), al sistema familistico-clientelare(e di raccomandazioni) che si ritrova già nel fascismo (consiglio a riguardo Il fascismo degli italiani di Patrizia Dogliani) e, prima ancora, nell'antica Roma, appunto. (consiglio il testo di Luciano Perelli La corruzione politica nell'antica Roma). Per non parlare degli anni della DC e della fine della prima Repubblica. Insomma è proprio connaturato al DNA italico (e alla nostra storia) questo sistema che si fonda sul vincolo parentale e sulla raccomandazione, mentre il resto della società è lasciato ad arrangiarsi. A scannarsi.
Osservando gli uomini in divisa nelle loro ore libere, l'elemento che emerge preponderante è la solitudine, una grande solitudine, che cresce accanto alla sfiducia e alla disillusione. Alla certezza che nulla, in primis per chi serve lo Stato, abbia più senso. E questo genera rabbia, frustrazione, odio. Sentimenti facilmente indirizzati, incanalati, in icone e motti obsoleti, sciocchi, ignoranti e utili al potere per mantenere le distanze (e i privilegi) da questa macelleria tra poveri. La politica, il Palazzo, ormai rappresentato come irrimediabilmente sordo e privo di ogni funzione reale verso gli elettori, verso il popolo che rappresenta e che lo serve. Un popolo vittima di ogni sopruso, ormai abituato a voltare la testa, a vivere nell'illegalità, nella sfiducia e nella violenza della vendetta, senza mai una richiesta e una volontà di giustizia oggettiva.
Questi stati d'animo sono ottimamente rappresentati da quella che potremmo giocosamente definire la "poetica delle sbarre": le sbarre dietro a cui si ritrovano molto spesso i personaggi del film (e la mdp), gabbie mentali e fisiche in cui si siamo chiusi noi italiani da troppo tempo. Le stesse gabbie che portano a una capacità cognitiva da tifosi, dove si è tutti bastardi o eroi, buoni o cattivi, peccatori o pii, vittime o carnefici, fascisti o comunisti. Ecco qual è il problema che emerge fortemente dal testo: occorre riproblematizzare gli eventi, i fatti di cronaca, cercare di capire senza schierarsi immediatamente, capire che ruolo deve avere lo Stato, la polizia, la celere, un ruolo che si è completamente smarrito, e ai cittadini pare vada bene così. La polizia deve mantenere i cittadini al sicuro e preservare la democrazia, e allora perché hanno massacrato i ragazzi alla Diaz? Allora perché i cittadini si sono abituati a odiarli, ad affrontarli nelle piazze, come se il vero"nemico" fossero loro. E già parlare di nemico è errato, perché vuol dire partire da una logica manichea di buoni/cattivi, quando il ragionamento, forse, dovrebbe essere (e divenire): lo Stato chi rappresenta e chi deve rappresentare? Lo Stato è l'espressione del popolo intero, niente di più. E per ottenere questo bisognerebbe lottare, ma poi ci si ricorda che l'Italia è fatta di famiglie, di vincoli parentali e clientelari, in cui elemosina, scambi e servilismo sono all'ordine del giorno. E rieccoci a bordo della giostra fatta di frustrazione, vendetta personale e ingiustizia, perché accettando tale sistema siamo noi i primi a commettere ingiustizie e a vivere nell’illegalità.
La figura paterna più vecchia è messa in scena da Mazinga: stanco, disilluso, colluso. Si sente un fallito, con un figlio che non capisce e non conosce, e con anni di violenza utili solo a peggiorare la società in cui (soprav)vive. Nelle sue espressioni emerge sempre la stessa domanda: per cosa ho fatto tutto questo?
Il personaggio di Cobra è l'unico, insieme a Mazinga (ma il suo non è un vero cambiamento, è stanchezza ed è un ultimo tentativo di salvare il figlio mai educato), a non cambiare nel corso del film. Il suo è sicuramente un personaggio eccezionale: unisce sensibilità e umanità (quando sente il bimbo piangere al campanello della casa occupata; il suo ruolo di forte collante che sedimenta il legame tra fratelli-celerini, le regole da far rispettare durante sgomberi e azioni in divisa) alle più violente e vergognose bassezze. Si identifica in icone fasciste (Mussolini in primis) e in slogan leghisiti-pidiellini (padroni a casa nostra) avvertendo dentro di sé una rabbia e una frustrazione crescenti. Un odio che si trasforma in sputi dal balcone, violenza cieca e protezione (a ogni costo, anche illegalmente) dei suoi colleghi. Il suo volto è solcato dalle rughe del dubbio, dell'infelicità, non somiglia per nulla al'iconografia usata dal fascismo per fare del Duce un'icona di forza, virilità e fierezza. Il suo sguardo cupo è spesso smarrito, specialmente nei momenti di silenzio che seguono il ricordo dell'episodio del G8 di Genova.
Negro è un personaggio più umano, più comune. Riunisce in sé la figura dell'uomo che ha sbagliato, e che continua a commettere un errore dopo l'altro. Istintivo, nevrotico, picchia la moglie, si scaglia contro alcune prostitute facendo esplodere al lavoro i suoi problemi privati, è il personaggio che più ricorda che anche i celerini hanno una vita, a volte piena di problemi, come tutti. E anche loro si trovano di fronte a un Palazzo che tace, a un ministro che sorride e annuisce, per poi lasciarli soli con le loro famiglie. Contro le loro famiglie. Negro però, dopo la scena del pestaggio-vendetta ai giovani fascisti, riesce a cambiare. Capisce che il suo ruolo è di padre-educatore, e che la cosa che conta non sono le piccole e inutili vendette su ultras e stranieri, ma l'amore che deve dare alla sua bambina.
Il vero eroe positivo del film è Spina, il ragazzo più giovane del gruppo. Spina che entra in polizia perché "fare a'guardia è un lavoro onesto", o almeno così credeva. Spina che deve nascondere ai suoi amici coetanei il mestiere che fa, che deve lavare la sua divisa piena di sputi nel monolocale in cui vive con la madre. Spina che colpisce il politico che gli fa da sempre promesse sulla casa popolare che gli spetta di diritto (anche se parlare di diritti, in Italia, fa sempre ridere), indirizzando una rabbia individuale sul "bersaglio giusto", senza ottenere alcun risultato, ovviamente. Spina capisce, ma solo dopo avere vissuto nella celere, fianco a fianco coi colleghi, bombardati e accoltellati allo stadio, lasciati soli a vomitare bile nei loro appartamenti cupi. La scena chiave del film, quella della vendetta per la coltellata subita da Mazinga, esemplifica al meglio i contenuti di cui stiamo parlando:
una scena agghiacciante, in cui la violenza esplode sulle note di Where is my mind dei Pixies (già udita nel finale di Fight club), una violenza rappresentata senza compiacimento, che risulta essere un atto inutile, ma unico mezzo conosciuto da questi uomini per "ottenere una (non)giustizia" fai da te. Spina, come aveva già fatto a casa della moglie di Negro (e come avevamo visto fare a sua madre durante il pestaggio dei rumeni al supermercato), osserva la scena, si fa spettatore guardante, non prende parte se non visivamente (proprio come noi spettatori) al pestaggio. Non c'è montaggio, c'è solo osservazione della brutalità, una violenza che si fa epifanica quando, finalmente, Mazinga si trova faccia a faccia con suo figlio.


In questa scena che altro non è che una Diaz episodio due (e poco importa nel contesto di analisi filmica se stavolta i giovani sono degli pseudo-fascisti), una macelleria messicana in cui i padri massacrano i propri figli, in cui emergono chiaramente le falle di una non-educazione fondata sull’odio verso gli altri, sull'abbandono, sul cattivo esempio. Quel gioco di sguardi racchiude l'intera pellicola, fermando per un attimo ogni pensiero e ogni azione, trasportandoci in un mondo altro, in una dimensione di pensiero assai più profonda dei cori da stadio, delle celtiche e dei manganelli. Il finale di questo "ragionamento" avviene nella scena successiva, quando Mazinga si specchia nel bagno di casa sua, e finalmente fa i conti con la sua identità di uomo, di padre: l'unica cosa che può fare, ora che è stato visto, scoperto (a riguardo interessante rivedere A history of violence di Cronenberg, specialmente la scena finale), è prendere a pugni sé stesso, massacrare (con la violenza, anche qui) la sua immagine negativa, quella che ha contribuito a rendere suo figlio ciò che è.
Mazinga e lo specchio: identità e riconoscimento
Il film potrebbe terminare con un'accusa forte ai genitori, allo Stato e alla polizia, ma invece la storia non si ferma qui. C'è ancora la storia di Spina, che ha assisitito al pestaggio e che vuole affidare i colpevoli alla giustizia, quella vera.
Salvati finchè puoi, non diventare come me
C'è Spina che non ci sta ai ricatti fatti da Cobra e gli altri (abbiamo le lame dei fasci, non possono denuciarci), è necessaria la figura positiva di un giovane che esca da questo microcosmo di ricatti, infamie, omertà, vendette e violenza privata, che restituisca alla giustizia e alla divisa il loro ruolo.

Spina con Cobra dalla moglie di Negro, solo vivendo le
cose puoi capire cosa è Giusto e cosa no



Spina fa rapporto, denuncia i suoi colleghi, la famiglia di cui non ha mai fatto veramente parte. Facendolo viene sospeso, e i colleghi gliela fanno pagare immediatamente coprendolo di insulti e intimidazioni. Ora è fuori dal branco, ma è indubbiamente lui limmagine vera della giustizia, lui che ha fatto un percorso empatico che lo ha portato (e noi con lui) a capire molte cose sulla società e a schierarsi senza calcoli opportunistici per un domani diverso. Spina che saluta Cobra con uno sguardo, da uomo a uomo,

Madre di Spina al supermercato assiste al pestaggio,
ci immedesimiamo nel suo sguardo spaesato
ma Cobra non uscirà forse mai dal suo ruolo, dalla sua impostazione mentale, e sale sulla camionetta fingendo di non riconoscerlo. Sale per andare a farsi massacrare, per concedersi a chi vuole la vendetta per Gabriele Sandri, in una giostra al massacro in cui lo Stato abbandona le forze dell'ordine contro gruppi pilotati da interessi che vanno ben oltre il calcio e la violenza. E noi, cittadini-spettatori, ci siamo abituati a schierarci, persino a fare il tifo, perdendo completamente di vista il ruolo dello Stato, e il nostro ruolo, nella società. A.C.A.B. ci mette di fronte ai nostri errori, a un decennio fatto di grida e violenza. A.C.A.B. è un monito a rinnovare i nostri schemi mentali, a chiamare le cose con il loro nome e a prenderci una volta per tutte le nostre responsabilità di singoli: padri, madri, figli.

AF, e grazie a Dino Santoro


Il cambiamento di Spina, che non accetta questa falsa "giustizia"
Spina considerato un traditore dal branco-famiglia, se ne va a testa alta 

Lo sguardo di Cobra che non riconosce Spina
"Io volevo un lavoro onesto. voi non siete più un cazzo che vi parate il culo e sputate sulla divisa" 


2 commenti:

  1. RECENSIONE ARRIVATA PER EMAIL

    A.C.A.B. di DINO SANTORO

    “Celerino figlio di puttana, celerino figlio di puttana…”, è questo il ritornello che Sollima sin dalle prime scene del film ha deciso che debba risuonare nelle orecchie dei suoi spettatori. Un coro da stadio, da manifestazione o più semplicemente l’espressione di dissenso di chi non riconosce questo pezzo di Stato; un motivetto semplice e diretto dietro il quale si delinea subito la grande spaccatura tra chi se ne serve per dissentire e chi invece ne ha fatto un modo di essere.
    Questa trasposizione filmica dell’omonimo romanzo di Carlo Bonini, è un’ amalgama di odio, violenza, repressione e frustrazione, riscontrabili in un “sistema Italia” fallimentare in cui istituzioni politiche e reparti di Stato abusano della loro posizione per perpetrare gravi atti di violenza fisica e pscicologica. Il regista scava a fondo nel mondo della celere e di questo reparto operativo, impegnato per la tutela dell’ordine pubblico, Sollima stringe sui quattro celerini protagonisti: Cobra, Mazinga, Negro e Adriano, i quali vivono un perenne conflitto tra vita pubblica e privata dove i rispettivi problemi familiari e frustrazioni si ripercuotono in maniera rovinosa sul loro operato di poliziotti. Cobra è un solitario, un nostalgico fascista che rimpiange i tempi che furono, un duro che in nome di un ideale scarica la sua rabbia quando indossa la divisa. Mazinga è il “nonno” del gruppo, un mentore per i suoi compagni nonché fratelli, ma è ripudiato sia come poliziotto sia come padre dal giovane figlio skinhead con il quale è perennemente in conflitto. Negro vive un situazione di forte disagio familiare, separato dalla moglie non può vedere più la figlia a cui è fortemente legato. Adriano è la giovane recluta appena uscito dal corso d’addestramento che ha scelto il reparto soltanto perché si guadagna bene. Diverse storie legate tra loro da una divisa, perché come dice Cobra: «un celerino da solo non vale niente, c’ha senso solo se fa parte di un gruppo».
    Il film ripercorre alcune delle pagine nere della recente storia italiana ed è un attacco diretto e poco celato ad un sistema squadrista della polizia e ad una classe dirigente di destra che punta ad accaparrarsi voti facendo leva sull’insofferenza dei sui elettori. Ed ecco emergere di volta in volta i fantasmi del passato: gli scontri di Genova del 2001 e la “macelleria messicana” alla Diaz, l’uccisione di Gabriele Sandri, gli scontri allo stadio e la morte dell’ispettore Raciti. Tasselli di un unico puzzle tenuto insieme da un distintivo e un manganello. Chiaro risulta anche il riferimento alla campagna elettorale di Alemanno, attuale sindaco di Roma che fece della sicurezza pubblica il suo cavallo di battaglia appellandosi ad un atavico sentimento di italianità ben poco tollerante nei confronti dell’immigrato.

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  2. Inevitabile è l’innescarsi di un meccanismo a due elementi in cui lo Stato è il cervello e la celere è il braccio, elementi in simbiosi e sempre presenti quando l’uno ha bisogno dell’altro (l’assoluzione di Cobra è l’esempio pieno del concetto).
    Un film potente, di quelli che forse non ci si aspetterebbe in Italia. Un attacco alla nostra società e al nostro italian-style, dove alla fine lo spettatore dopo due ore di film non è in grado di fare la solita distinzione tra bene e male, tra buoni e cattivi, perché nel film di Sollima non esiste il bene.
    Il ritmo del film è molto serrato, grazie anche a un montaggio dinamico che fa della relazione causa-effetto (sempre immediata) il suo punto di forza. Molto oculata è stata anche la scelta delle musiche, dure e in alcuni casi “sporche” e a tal proposito degna di nota è la scena di preparazione iniziale dei celerini, quando sulle note di Seven Nation Army, l’uomo diventa una sorta di super-uomo/eroe nell’atto della vestizione, armandosi e cingendosi in indumenti o divise che denotano il suo status…proprio come succede in Rambo II.
    Il cinema di Sollima è un cinema senza peli sulla lingua, che non ha paura di raccontare, un cinema basato molto sulla caratterizzazione dei propri personaggi, come già ci aveva abituato con la serie televisiva Romanzo criminale, un modus-operandi che in definitiva ci restituisce speranza per il cinema italiano.

    Dino Santoro

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