8.2.12

EXTRA: J.Edgar

Titolo: J. Edgar
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Paese: U.S.A.
Anno: 2011

Negli ultimi anni prolifera un certo tipo di cinema "politicamente" impegnato che vuole dirci molto su come la politica si avvalga del mondo della comunicazione (dei mass-media) e della finzione per ottenere consensi: sto pensando ai film di George Clooney regista (da Goodnight, and goodluck al recente Le idi di Marzo), al pluri-premiato Il discorso del re, in parte al The iron lady sulla Thatchere mi fermo a questi pochi esempi degli ultimi mesi per segnalare questa tendenza nella quale rientra a pieno titolo anche l'ultima opera di Eastwood.


Due annotazioni preliminari: non si può non disprezzare il trucco pessimo, che rompe la sospensione dell’incredulità dello spettatore (Ah, guarda come è truccato male Di Caprio!), fatto di mascheroni chiazzati e lenti a contatto scure che azzerano le potenzialità espressive degli attori. E non parliamo del doppiatore under14 di Di Caprio, una voce bianca assolutamente insopportabile. Okay, dopo questo sfogo, passiamo al film.
La storia messa in scena da Eastwood ci racconta parecchie cose: ci racconta la storia dell’Fbi attraverso le vicende del suo ideatore; ci racconta  la sua storia famigliare, ovvero il suo mega complesso edipico e di sottomissione alla madre (degno di Psycho); ci racconta la sua omosessualità e la violenza con cui la castra, la occulta e la reprime; ci racconta la biografia di un uomo che è realmente esistito; ci racconta l’evoluzione del potere e del controllo (l’ideazione di archivi, la centralità del controllo dei dati, delle informazioni), ma più di ogni cosa, ci racconta la storia della creazione di un immaginario collettivo. Prima attraverso la realtà, poi attraverso i mezzi della finzione narrativa. Questa pellicola, essendo appunto un film (opera di finzione) che ci racconta la storia di un uomo realmente esistito e dell’Fbi (che tuttora esiste e agisce), parla anche di se stessa: del suo statuto di testo, di oggetto prodotto dall’uomo e quindi privo di oggettività e di verità totali. Vediamo in che modo.
Nel primo tempo assistiamo a due proiezioni all'interno di cinema affollati: la prima vede proiettato un discorso del giovane J. Edgar (che parla della necessità di sconfiggere il crimine e le mafie), e il pubblico reagisce fischiando e dicendo: vogliamo il film!! Ma questo pubblico in cerca di distrazione e divertimento, quale film attende? Siamo negli anni Venti, anni di gangster movie, e il pubblico (che a breve vivrà la Grande Depressione) vuole vedere questi gangster nati dal nulla prendersi con la forza le città. La realtà è già abbastanza dura là fuori, che almeno il cinema ci risparmi dalla realtà e dalle notizie di cronaca, ovvero da J. Edgar.
Tutto questo non passa certo inosservato, e Egdar capisce che per far breccia tra le persone, tra gli spettatori, non è sufficiente (anzi, è controproducente) la realtà, occorre agire come fa Hollywood: con la finzione. Con la costruzione, fuori e dentro i cinema (e servendosi dell’intero comparto mass mediatico), di poliziotti-eroi, positivi, forti, cool. Bisogna recitare per rendere eccitante la lotta al crimine e per rendere partecipe la massa, occorre creare miti, non è più sufficiente la realtà.
Il film evolve su questo piano, step by step: ecco che sui cereali compare un distintivo delle forze dell’ordine, ecco che Edgar comincia a presenziare agli arresti dei criminali, ecco che chi può rovinare l’Immagine della polizia viene allontanato, ecco che le foto e i film cominciano a raccontare qualcosa di diverso, qualcosa in cui l’uomo medio e i bambini vogliano riconoscersi: i poliziotti-eroi. Questa rappresentazione funzionale, che vive nella realtà (non solo al cinema), ha un suo rovescio: l’Fbi essendo così amato, o comunque percepito come benefico e positivo dall’opinione pubblica (o dal pubblico…), può arrogarsi il diritto di agire senza freni né regole, convinto di perseguire un bene superiore. Ma non addentriamoci oltre negli intrighi interni alla Casa Bianca, e passiamo al finale del film.
Il finale vede i due vecchi amanti seduti a tavolino, e succede una cosa eccezionale: l'amato compagno di Edgar gli ricorda chi è e cosa è la sua creatura, l’Fbi. E facendolo, più che a Edgar, sembra che parli a noi spettatori, mettendoci in guardia sia sull’Fbi (e qualsiasi sistema di potere e controllo) sia sulle rappresentazioni (quindi il film contesta sé stesso, dicendo: attenzione, questo è soltanto un film su J. Edgar e l’Fbi, non è la Verità). L’uomo ricorda a Edgar che il sistema che hanno costruito è fondato sulla finzione, sulla menzogna: è marketing, è recitazione, è messa in scena quella fatta dall’Fbi per avere potere, e gli cita il caso Dillinger che è esemplare a riguardo. Non siamo eroi, abbiamo architettato una grande farsa per racimolare attenzioni e potere, tutto qui. Ricordatelo. E lo stesso dice a noi: quando uscirete dalla sala non crediate di sapere chi è l’Fbi e chi è J. Edgar, semplicemente avrete visto una sua interpretazione soggettiva (di Eastwood e di chi ha scritto il film), tenete il cervello acceso poiché sta a voi vagliare altre fonti e capire che la verità non è certo quella che ci passa piacevolmente davanti agli occhi a 24 fotogrammi al secondo.

Mass media à rappresentazione di una realtà, di una storia à creazione di un immaginario collettivo.

Questo ci ricorda Clint, teniamocelo bene in mente.

AF

Lo trovate: al cinema (forse in qualche rassegna, e vale la pena rivederlo); a breve in dvd.
Tag: Goodnight and goodluck, Le idi di marzo, Il discorso del re, The iron lady, ... 

7 commenti:

  1. Da premettere che a me non ha infastidito il trucco di J.Edgar vecchio, quanto quello di Clyde Tolson, tremendo, sembrava Ruggiero De Ceglie de I Soliti Idioti... Comunque.
    Riconosco e condivido perfettamente le tue considerazioni sulla creazione di un immaginario collettivo, di un mezzo destinato a cambiare la percezione dell'Altro e dell'Umanità, è stata proprio la prima cosa a cui ho pensato vedendo il giovane JEdgar che portava la ragazza nella biblioteca del Congresso e le spiegava la sua idea grandiosa di classificazione - prima dei libri, poi dei cittadini, come se le due cose si equiparassero, essendo entrambi oggetti/numeri.
    Comunque l'intero film mi ha dato l'impressione che il nostro Clint, solitamente venerabile, stavolta abbia toppato. Il film non mi è sembrato andare molto oltre la pura e lineare biografia, eppure non credo fossero quelle le intenzioni iniziali. Vi sono molti piccoli scandali solo accennati e poi messi da parte, uno dopo l'altro, a nessuno viene dato rilievo particolare, insomma il film non ha un perno. Tu mi dici che il perno è proprio quello del meccanismo di finzione, di messinscena? Non so, non mi convince. Per quanto un'opera voglia essere metalinguistica, non può reggersi solo ed esclusivamente su quello, non può essere solo e interamente una riflessione sulla rappresentazione. Deve poggiare su un qualche elemento più concreto, che sia alla portata dello spettatore, del non addetto ai lavori, altrimenti diventa autoreferenziale. E per questo ho detto prima che penso che Clint abbia toppato, perchè non mi sembra da lui un lavoro così autoreferenziale. Eppure di spunti una vita come quella di Hoover ne offriva tanti! sarebbe bastato svilupparne uno più degli altri, invece mi è sembrato un elenco di episodi e nient'altro. Un po' noioso, per dirla proprio banalmente. Però non so, forse va rivisto per dare un giudizio più attento... Di sicuro comunque non sarà questo a farmi amare di meno Clint!

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  3. Io ho detto che, tra le tante cose di cui poter parlare, quella che a me interessa di più (anche perché chiude il film, e il taglio della storia di J. Edgar data Clint) è quello del rapporto realtà - finzione. Alla fine viene smascherato questo castello, e a me pare la cosa più interessante e riuscita di un film abbastanza insipido. Sicuramente meglio di Hereafter che, secondo me (nonostante dei fantastici personaggi), era mosso dalla paura della morte: come se la sola ragione di/per vivere fosse cercare risposte all'aldilà, avere la certezza (o quasi) che chi abbiamo perso è là che ci ascolta. Questo film è già più godibile, anche se non mi è piaciuto molto. Infatti qui non si parla di bello/brutto, ma dei significati che vanno oltre la trama, altrimenti non avrebbe senso un altro blog di cinema. Che piaccia o meno, che sia sintomo di grandezza o debolezza, interessa capire di quali cose parla il film, la più succosa (trattandosi appunto di un film che parla di finzione) era secondo me questa, perché si dipana lungo tutta la storia per poi esplodere nel finale. Si sarebbe potuto parlare altrettanto di genere sessuale, di complesso edipico, ecc. Io ho privilegiato questo aspetto, ma l'idea è che ognuno ampli il discorso. Anche secondo me il film è noioso, ma in questo contesto non ci importa, stiamo cercando di parlare di Cosa veicola questo testo offerto alla collettività (e visto da migliaia di persone), che piaccia o meno è un altro discorso :)

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  4. Hai pienamente ragione. Mamma mia quant'è difficile però non cadere nel meccanismo del giudizio estetico, e non riportare tutto sempre e comunque alla NOSTRA visione e valutazione :)

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  5. è difficile per tutti, ma bisogna pur cominciare da qualche parte ad ampliare le prospettive, e farlo fuori dalle aule accademiche :) l'importante è contribuire e diffondere, ma siamo ancora all'inizio!

    P.S. ancor più difficile è passare da una logica verticale (specie all'interno della critica tradizionale, che spesso giudicava con riferimenti alle arti tradizionali, ed era (in parte) giusto finché il cinema era solo Al cinema) a una logica orizzontale: sarà sempre più inutile parlare di scuole, maestri, ecc, i registi saranno sempre più ibridati, meno innocenti e figli di film visti dappertutto, quindi la cosa che (a nostro avviso) più conta è l'epoca in cui essi crescono, non tanto la loro biografia personale e formativa, ormai tutti possiamo vedere tutto, sempre.

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  6. Bé però non in modo drastico, spero tu non intenda questo...cioè per me l'Autore esiste ancora ed esisterà probabilmente sempre, anche con le ibridazioni e le influenze di cui parli. Proprio oggi ho avuto una lunga discussione con Lorenzo proprio su questa questione: oggi più che mai è sì vero che conta il saper dire qualcosa sull'OGGI, che parli ALLA e DELLA nostra epoca, ma mentre esiste una categoria di registi che sono più o meno intercambiabili e il risalto lo si dà al testo (filmico) e non al creatore, ne esisterà sempre un'altra alla quale importerà di più (e sarà quella da preferire sempre e comunque, secondo me) il COME dire determinate cose più che il COSA dire. Insomma non so se ho chiarito il concetto ma riassumendo: sarò una sognatrice, ma credo ancora nell'arte pura :D

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  7. a parte che il film è fatto da molta gente, non è un quadro o un romanzo (e anche qui gli editor ci mettono becco), quindi non può mai essere un'Opera: c'è una storia, spesso scritta da altri, poi c'è una regia (con operatori che muovono le macchine), ci sono attori (spesso imposti da budget e giri vari...), ci sono le musiche e c'è il montaggio. Okay, finché si parla di Von Trier, Malick ecc ci può stare che sia opera Loro, ma in generale il testo offerto alla collettività è un'opera corale. Il regista, a volte, è anche solo un operaio delle immagini. Al di là di queste cose, che riguardano appunto l'estetica, la cosa di cui non ci si può sbagliare è che l'oggetto film parla e dice certe cose, a prescindere dalla volontà dell'autore. La presunta poetica si sviluppa film dopo film, ma se si indagano quelle cose ci si relega a un universo puramente storico-artistico-accademico. Ovvero la morte del cinema, nel senso: non produrrà mai discorsi utili alla società. Può essere interessante invece capire cosa ci dice questo testo sulla società che lo ha prodotto, perché ogni artista non ha dentro nulla (già lo diceva Piero Manzoni con la sua merda), se non cibi e liquidi digeriti, ma è figlio della sua epoca e della sua formazione. C'è chi vuole indagare i modi in cui un regista dice queste cose, quindi la sua "poetica", io (noi) siamo interessati ai contenuti, perché la poetica resterà sempre qualcosa da "intenditori" e autoreferenziale, mentre l'interpretazione può portare a discorsi che accrescono cultura e interesse (cinematografico e sociale) degli spettatori. Insomma non è detto che chi Vuol dire per forza qualcosa sia meglio di chi, dicendo semplicemente qualcosa (con un film), va a fare un film che parla di un tale argomento. La consapevolezza autoriale è una bella cosa, ma resta qualcosa utile a fare libri di storia dell'arte. Sarebbe bello andare oltre, e non solo nelle aule delle università

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