23.3.12

EXTRA: Magnifica presenza

Titolo: Magnifica presenza
Regia: Ferzan Ozpetek
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Federica Pontremoli
Paese: Italia
Anno: 2012


 Storia di fantasmi, storia di presenze inquietanti e invadenti. Il nuovo film di Ozpetek, sin dal meraviglioso incipit, segna un’eccezionale virata nel percorso del regista. L’autore si lascia alle spalle le storie di famiglie opprimenti, dai toni estremamente melodrammatici, per virare sul fantastmatico e sulla commedia, per abbandonarsi al puro godimento dello sguardo e della visione.

 Pietro Ponte è un ragazzo di Catania sbarcato nella capitale per coronare il suo sogno: fare l’attore. Tra un provino e l’altro si mantiene facendo il pasticcere durante la notte, privo di amici avrà l’occasione di fare conoscenze nella sua nuova abitazione, condividendo le antiche stanze con misteriosi inquilini, fantasmi di attori provenienti da un’altra epoca e da un altro palcoscenico.
La superficie della storia raccontata dal film ricorda inevitabilmente L’angelo sterminatore di Bunuel e il Vogliamo vivere di Lubitsch, con una spruzzata finale di Pirandello per infarcire il tutto. In realtà questa storia, che sotto i nostri occhi si trasforma da inquietante a commovente, senza trascurare le tonalità ironiche, altro non è che un pretesto per parlare della solitudine nella società contemporanea. Una società-palcoscenico, in cui tutti sono costretti – e si sono abituati – a mettere in scena sé stessi, nascondendo dietro a trucchi ed espressioni gioiose ogni sofferenza, ogni problema e stato d’animo, come dimostra in ogni occasione l’incestuosa cugina di Pietro. Tutti recitano, tutti tranne Pietro, che infatti deve fare i conti con “i suoi fantasmi”, altri attori, costretti a fingere negli anni Quaranta per sfuggire al nazi-fascismo. Ozpetek mette in scena il rapporto totalizzante tra realtà e finizione, rappresenta la diversità e l’esclusione a cui è soggetto chi ancora non riesce a costruirsi un ruolo, ed è addirittura costretto ad avere due album di figurine perché non ha nemmeno un amico con cui scambiare i doppioni. Solo queste presenze, che collegano passato e presente, daranno a Pietro la forza di cercare la verità, di affrontare il duro palcoscenico della vita.
E lo stesso varrà per Pietro, una magnifica presenza senza cui i fantasmi del passato non potrebbero che rimanere persi nell’attesa di venire a conoscenza del finale, e della verità, sulla storia che li riguarda più direttamente: la loro vita. Il film eccelle per le scelte registiche che donano alla visione e ai personaggi un tono di assoluta ambiguità, obbligando lo spettatore a rivalutare, scena dopo scena, le immagini che ha visto. Chi è davvero Pietro, se viene così duramente accusato dall’uomo per cui si è spostato a Roma? Chi sono veramente tutti questi strani personaggi che gli ruotano attorno? Chi era realmente Livia Morosini, la donna di cui parlano ossessivamente i fantasmi? Chi sono gli uomini e le donne del film? Non a caso, nel ruolo della badessa appare Maurizio Coruzzi in abiti maschili (in arte Platinette, vero e proprio emblema della dualità e intercambiabilità di genere), a coronamento di questa difficoltà di creare nessi facili tra immagine e contenuto. Ozpetek sembra ribadire che tutto quello che vediamo, nel film così come nella società, è nulla se limitato al solo potere della visione. Senza creare nessi di significato, senza il ragionamento, non potremo che rimanere vittime dei nostri fantasmi e delle nostre insicurezze. Solo un insieme di collegamenti, tra passato e presente, tra realtà e finzione, tra sguardo e conoscenza, potrà renderci felici. Restermo pur sempre spettatori, come ci ricordano gli emozionanti titoli di coda, ma spettatori consapevoli, liberi di guardare e di guardarsi, liberi di abbandonarsi al racconto e alla visione, senza i quali saremmo anonime presenze che vagano per la Storia in cerca di attenzioni.

AF

14.3.12

EXTRA: Enter the void

Una baracconata perversa che difficilmente dimenticheremo.


Siete mai stati a spasso per le vie di Tokyo in trip lisergico? Non temete, non ce n’è più bisogno. Sarà sufficiente guardarsi questo interminabile film di Gaspar Noè per vivere un’esperienza assolutamente fuori dal normale.
Enter the void inizia come una bomba di adrenalina. I titoli di testa supercool ci introducono a pugni negli occhi in una Tokyo notturna fatta di droga, sesso e neon pulsanti. Partiamo dalla struttura narrativa: il film è diviso grossomodo in tre parti. La prima, tutta in soggettiva, la viviamo dal punto di vista di Oscar (quindi l’Io narrante che si fa Io visivo, con tutti i relativi limiti di visione). Questo succede finchè una pallottola della polizia non accoppa il nostro protagonista, il suo sguardo (che è anche il nostro) si scolla dal suo corpo, lui si vede morire e la macchina da presa si fa sguardo dall’alto, onnisciente. In realtà questa seconda parte, giocata quasi esclusivamente sul passato del protagonista, ci racconta quello che ha preceduto la sua morte – dall’infanzia a oggi – avvalendosi della terza persona: lo sguardo è quello ectoplasmatico, in trip, del protagonista che guarda sé stesso, che rivive alcuni momenti chiave della sua esistenza, e si guarda di spalle. Il terzo sguardo ritorna a raccontarci il presente: è lo sguardo ubiquo, che tutto può e tutto vede, lo sguardo perverso che può scoparsi tutte le donne, che passa attraverso i muri, che spazia da una vita all’altra. È lo sguardo di dio, dell’uomo invisibile, uno sguardo da videogame e da Google earth. Lo sguardo onnipotente che si introduce nei singoli Io e nelle stanze di ognuno di noi. L’ultimo sguardo (e qui abbiamo davvero perso il conto, perché senza limiti di visione umana lo sguardo è mutevole e non incasellabile) è quello soggettivo dell’Io mutilato, lo sguardo di Oscar che si risveglia nell’obitorio e che non viene riconosciuto dalla sorella. In realtà non si può etichettare questi sguardi, si può solo censirli in questo modo, proprio perché dalla morte in poi lo sguardo si fa trip, viaggio nell’oltre, nella visione più folle e totale. Non si è più sicuri di nulla e ci si deve abbandonare a quello che scorre sullo schermo.
Fin qui tutto bene, il problema è che il film dura più di due ore e mezzo, e al di là della cecità provocata da tutto quel lampeggiare (spesso eccessivo e inutilmente ripetitivo), i movimenti di macchina da estetica videoclippesca di Noè finiscono con l’appesantire l’arca e farla colare a picco.
Enter the void non è un film, è un’esperienza, ed è un’esperienza che anticipa il The tree of life di Malick. I due film in un certo senso si assomigliano, vanno a parare nell’initmità degli individui, nel ricordo, nei traumi e nella – passatemelo – perdita dell’innocenza. La differenza è che Malick fa cinema con la C maiuscola (i suoi sono movimenti di macchina sinuosi – al di là del fatto che piacciano o meno - non ci si stanca mai di quegli ambienti, di quei movimenti dolci e dinamici, di quelle musiche), mentre quello di Noè sembra un infinito videoclip in cui tutto è concesso. La macchina che gira a 360° (parleremo in seguito della figura del cerchio), i trip di luce fini a sé stessi e insopportabili, la provocazione del feto morto (che in questo contesto appare come una cosa tra le tante altre possibili, quindi priva di efficacia).
Enter the void è un’esperienza, è l’esperienza dell’acido, della morte, in una società rappresentata come violenta e ostile, una società dominata dal senso di morte e dall’impotenza degli individui (l’incipit spiega bene il contesto), esseri che vivono isolati e avvertono l’assenza di dèi lontani e sadici, un vuoto (void) che porta questi giovani a consumarsi rapidamente all’interno del flipper metropolitano.
Noè non ha molte cose da dire, per questo, ciò che all’inizio lascia con la bocca spalancata, finisce per far sbadigliare (se non per farci pregare che arrivino i titoli di coda).
Tra le figure ricorrenti, oltre alla reincarnazione e al vagare lisergico (“vuoi dirmi che siamo incastrati in questo mondo?” chiede Oscar ad Alex, e l’aggettivo sottinteso è Di merda) che concedono vie di fuga provvisorie, ecco alcune figure che ampliano la prospettiva, pur restando nell’ambito della inevitabilità: il loop, il cerchio, la ripetizione. La figura del cerchio che ricorda l’inevitabilità, ma anche l’interconnessione delle persone, dei luoghi, delle situazioni. Il loop dei ricordi e delle sensazioni che ci catapultano dal seno materno alla morte dei genitori, dalla scopata con la madre dell’amico all’uso delle droghe, un continuo rimbalzare (ancora il flipper) tra situazioni di amore/protezione a situazioni di morte/perdita. Amore e morte, sicurezza e perdita, un viaggio nell’Io malato e tossico della contemporaneità, un Io che vuole stordirsi sino a perdere il senso della realtà, una realtà triste, composta da una serie di perdite e traumi, in cui appare impossibile amare e ricostruire una famiglia felice (quante volte i fratelli si ripetono: Non lasciarmi e Non moriremo mai, come se ci fossero infinite possibilità di riscatto). Un Io sopraffatto dalla paura di vivere che fugge in continuazione dalla realtà (e qui torna in mente l’indimenticabile Sangue- la morte non esiste di De Rienzo). Un Io che diviene sguardo senza confini, perverso, che penetra (Enter) buchi (altra figura ricorrente): tunnel, corridoi, vie, vagine (in particolare quella della sorella e quella materna, nella coronazione visiva di un mega-complesso edipico), ferite, fori di proiettile, forni crematori, posaceneri, lampadine, fornelli e persino un feto. Elementi caldi, luminosi, vitali, che richiamano un senso di piacere e di protezione, che consentono allo sguardo del film di spostarsi da un luogo all’altro, come se quelli non fossero altro che connettori, condotti vuoti di energia pura, esattamente quelli di cui parlava il Jim Morrison di Tempesta elettrica.
Questo tentativo di fuga da sé e dalla realtà, che porta direttamente all’ultimo viaggio (quello verso il forno crematorio), termina con la coronazione dei sogni di Oscar: entra finalmente nel palazzo dell’amore, in cui riesce a vedere tutti quelli che conosce fare sesso (aveva parlato di questa visione-sogno proprio durante il film). In quel palazzo simbolico tutto è possibile: trovare l’amore vietato, vedere gli altri farlo, riscoprire la tanto sognata e desiderata famiglia. Lì dove è possibile che tutto finisca e che tutto ricominci, ritornando al loop esistenziale: la reincarnazione. Il film si chiude con lo sguardo sfocato di un neonato, e il capezzolo rosa di Linda, la sorella di Oscar. L’Io ritorna piccolo e innocente, pronto a ripiombare in quel carosello di emozioni, piacere, amore, sofferenze e morte che è la vita.
Finalmente l’odissea allucinogena di Noè all’interno del vuoto esistenziale è finita. Nemmeno la morte ci salverà dall’infelicità. Per fortuna invece il film finisce con il classico schermo nero dopo i titoli di coda.
Quello che viene da pensare è che non abbiamo visto un grandissimo film, ma sicuramente abbiamo vissuto un’esperienza che difficilmente dimenticheremo.

LO TROVATE: forse in sala (da noi è uscito solo lo scorso dicembre, magari passa in qualche rassegna, vale la pena vederlo in sala!), per ora niente dvd. Si trova sul web sottotitolato.



AF

8.3.12

Troll Hunter

Titolo: Troll Hunter (Trolljegeren)
Regia: André Ovredal
Sceneggiatura: André Ovredal
Paese: Norvegia
Anno: 2010

 "(Anche) la Norvegia ci sorprende!!".
Con questa esclamazione si può aprire la recensione di Troll Hunter, mokumentary norvegese, più fantasy che horror, che stupisce lo spettatore sia a livello di composizione estetica, che a livello di inventiva, costruzione e significati.
Quando si discorre di mockumentary, forse, sarebbe meglio prendere come punto di partenza opere ben più "sostanziose", vedi i vari Cloverfield, made in U.S.A., o il ben più terrificante e famoso REC, di produzione spagnola. Eppure, questo Troll Hunter, nella sua costruzione riesce a mantenere tutti quegli elementi che hanno permesso al genere mokumentary di imporsi all'attenzione del pubblico.


Quando si parla di mockumentary si fa riferimento alla tecnica del finto documentario. Ovvero la creazione di eventi fittizi, che vengono presentati al pubblico come reali.
Celebre capostipite per il grande pubblico è indubbiamente quel The Blair Witch Project, che  tanto ha intimorito gli spettatori, e al contempo fatto guadagnare milioni di dollari alle case di produzione.
Già prima di The Blair Witch Project il mockumentary esisteva, a ben vedere fin dagli anni '60: possiamo considerare Zelig, di Woody Allen, come un chiaro esempio di mockumentary, ma mai prima degli eventi della strega di Blair, il mockumentary si era avvicinato così tanto all'horror.
Da The Blair Witch Project in poi mockumentary e horror intrapendono una sorta di relazione di scambio, in cui l'horror cerca di intraprendere nuove strade, punta alla sperimentazione, e lo fa utilizzando il genere del falso documentario per trasmettere nuove sensazioni allo spettatore. Spettatore che si ritrova in prima persona dentro l'azione, che non può esimersi dal guardare. Si ritrova partecipe, fianco a fianco dei protagonisti, all'interno dell'azione. Soggiacendo ad un sorta di "tirannia dello sguardo", in cui non è più libero di indirizzare le pupille dove vuole, all'interno di una scena. Al contrario il suo sguardo viene spostato, re- indirizzato, freneticamente sballottolato da una parte all'altra. Potrebbe sembrare una casualità, la camera che sobbalza, noi con lei, la camera che cade, noi con lei, ma alla resa dei conti non è altro che un piano ben strutturato per indirizzare il nostro sguardo in una precisa direzione.
Dopo questa breve parentesi possiamo tornare a Troll Hunter.

L'opera risulta essere ben strutturata, esteticamente perfetta, riesce a mantenere ben alto il livello di tensione fino al finale, dove, come in una sorta di continua escalation, si arriva al contatto diretto. Il plot risulterà molto interessante per gli appassionati di fantasy e mitologia norvegese, che potranno gustarsi "dal vivo" i Troll che abitano nei boschi, o che si nascondono sotto i ponti.
Ma di cos'altro ci parla Troll Hunter?
Troll Hunter, dietro al suo lato puramente estetico, apparente, dietro all'utilizzo del finto documentario, nasconde una vena ambientalista.
Ecco, Troll Hunter ci parla di ambiente, ci parla di ingiustiza nei confronti della natura. Infatti, è sufficiente scambiare i Troll con qualsiasi altra specie in via di estinzione, ed ecco che le coincidenze appaiono, si sovrappongono, e ci regalano un prodotto ben strutturato.
Quindi Troll Hunter può essere letto come una sorta di monito nei confronti della spregiudicatezza umana nei confronti dell'ambiente. Bisogna preservarlo questo ambiente naturale, occorre trovare una mediazione tra industrializzazione e ambiente. Tra spregiudicatezza costruttiva e preservazione ambientale. Non deve stupire che un'opera del genere riesca a trattare così tanti argomenti. Così come non deve stupire che un prodotto del genere sia stato realizzato in Norvegia.
Ovviamente i produttori americani hanno già acquistato i diritti per un remake, con molta probabilità verrà fuori un prodotto simil- Cloverfield, in cui il lato estetico prevarrà sui contenuti. E in cui lo spettatore sarà piacevolmente colpito dalla "partecipazione attiva" all'azione, ma in cui sarà "vittima" a quella "tirannia dello sguardo" spesso priva di contenuti.

mp

Lo trovi in: dvd; sul web.

1.3.12

EXTRA: A.C.A.B.

Titolo: A.C.A.B.
Regia: Stefano Sollima
Sceneggiatura: Daniele Cesarano, Leonardo Valenti, Barbara Petronio, Stefano Sollima
Paese: Italia
Anno: 2011

Tutti i poliziotti sono bastardi. Cominciamo dal titolo, che è il medesimo dell'ottimo libro a cui la pellicola si ispira. Il titolo che racchiude in sé una logica manichea da tifosi (non solo da stadio), in cui si è tutti bastardi o tutti amici, fratelli. Un titolo, che ormai è una sigla che compare un po' dappertutto, a partire dalla canzone dei The 4-Skins degli anni Ottanta,  che racchiude in sé già un grido di odio e di violenza, che individua un macro-gruppo di nemici contro cui scagliarsi sempre, senza esitazioni e distinguo. Il romanzo-inchiesta di Carlo Bonini è cosa altra rispetto al film, non tanto in senso strutturale (ovviamente ogni arte e ogni narrazione ha le sue regole e caratteristiche), quanto in senso di significati. Il libro dedica un intero capitolo alla ferita ancora sanguinante della scuola Diaz di Genova, con una specie di montaggio che alterna narrazione, regolamento della celere e referti medici dei ragazzi brutalmente e inspiegabilmente massacrati quella indimenticata notte. Il libro parte da lì, per raccontarci una società ultra-violenta, per porre in forma di racconto (in parte) finzionale questioni molto problematiche e all'ordine del giorno da ormai una quindicina d'anni. Questo è un libro che va letto per provare a orientarsi nella complessità (ridotta a una questione di tifo e schieramenti da parte dei potenti, che siano mafiosi o politici) dell'Italia degli ultimi dodici anni. Concentriamoci però sul film, sul modo in cui racconta e mette in scena diverse questioni scottanti, riuscendo a rappresentare la violenza senza spettacolarizzarla, riuscendo a non essere mai accondiscendente verso questi uomini (poliziotti e non) soli e cinici, abbandonati nelle loro borgate e per le strade della capitale


A.C.A.B. è stato visto da moltissimi italiani, a molti è piaciuto, ad altri assolutamente no. Non so se questo sia uno di quei film che si possono solo amare o odiare, credo che se interpretato possa essere molto apprezzato, sia perché è un film che scorre bene, a livello narrativo, sia perché racconta molto bene l'Italia (e Roma), i suoi riti, i suoi miti e il suo popolo. In poche parole: noi e la nostra epoca.
Padre costretto a dare soldi ingiustamente,di fronte agli occhi della figlia
Un po' come, in maniera completamente diversa, hanno fatto L'ultimo terrestre e Corpo celeste. Stiamo parlando di italianità, di riti e miti del nostro paese, di come una ragazzina vi può maturare sessualmente e culturalmente, di come un uomo di quasi quarant'anni possa accogliere un cambiamento epocale giusto e meritocratico (gli alieni, nel caso del film) e di come possa superare l'eterno senso di colpa, che accomuna tutti e tre i film, tipico di giovani che crescono, e sono cresciuti, sovrastati da un crocifisso e da esempi educativi (i genitori) assolutamente deprecabili.
Icone figlie di abitudine e ignoranza, ma i "padroni a casa nostra"
di oggi sono meno fieri e convinti di quello che credono
sia il loro esempio storico
A.C.A.B. è infatti, in primo luogo, un grande film sull'educazione. Ultimamente il The tree of life di Malick raccontava la storia di un uomo, Sean Penn, che arrivato a una certa età si interroga sul senso della (sua) vita, e facendolo comincia a ricordare. A ricordare di un padre violento e individualista (Brad Pitt), che addestrava allo stesso modo i propri figli. Una figura paterna che poi cola a picco verso la fine del film quando, perdendo il lavoro, si sente un completo fallito e arriva a capire che forse le cose importanti della vita erano altre, e crescere i figli in quel modo è stato un errore. I film in cui ci si interroga sul senso della vita sono all'ordine del giorno, anche il Melancholia di Von Trier pare irrimediabilmente contaminato dall'accettazione che l'uomo, e ciò che produce, è destinato a scomparire, perciò tanto vale rivalutare i propri legami e i propri modi (e stili) di vita. Questi anni sono pregni di un cinema esistenzialista, in parte depresso, e che pare alla ricerca di motivi validi per vivere la propria vita, la propria felicità di individui (argomento caro alla cultura americana, e non alla nostra. Non a caso la nostra cultura, e le nostre leggi, si fondano sul concetto di famiglia, che porta con sé determinate conseguenze). Questo cinema esistenzialista si interroga anche sui genitori, sui "padri", sul loro ruolo educativo/esemplare, e sulle loro colpe, perché in fondo qualcuno ha traghettato fino a questo punto il mondo (e l'Italia) nei decenni intercorsi tra i vari boom economici e gli anni Novanta. E ora possiamo definitivamente ritornare ad A.C.A.B., e all'incipit del film.
L'esordio cinematografico di Sollima inizia con tre sequenze che si intrecciano tra loro grazie al montaggio, presentandoci tre dei personaggi principali: abbiamo l'incidente di Favino/Cobra; la retata in borghese di Negro al supermercato; Mazinga che va a riprendere suo figlio alla centrale di polizia.
In questa lunga notte capitolina, il film comincia appunto con il buio, assistiamo alla vendetta personale di Cobra (che già in sella alla sua moto cantava "celerino figlio di puttana", come se quel canto rituale fosse così legato alla sua identità e alla sua percezione di sé da non poterselo mai scrollare di dosso), una vendetta che mette subito uomo contro uomo, carne contro carne, senza istituzioni, senza leggi, se non quella del più forte. E già qui la questione è problematica, perché Cobra è un poliziotto, potrebbe arrestarlo quell'inetto ubriaco, ma invece lo mena di santa ragione, come a mettere da subito le cose in chiaro: in Italia la giustizia non basta, o forse non esiste, perciò serve questo, e a questo ci siamo abituati. In sottofondo ecco che scorre la celebre canzone che fece da colonna sonora agli ultimi festeggiamenti per il mondiale 2006. Le altre due scene sono indubbiamente meno pregnanti, ma altrettanto significative, perché in esse ci vengono presentate due coppie di padri e figli: Negro e Mazinga da un lato e i loro figli dall'altro. Questi due padri sono dipinti come distratti, menefreghisiti, capaci di lasciare i loro figli a farsi del male mentre si dedicano unicamente al loro lavoro. Infatti la bambinadi Negro si ferisce cadendo dal carrello con cui sta giocando, mentre Giancarlo è in questura col volto tumefatto.
Lo Stato è un palazzo, distante dalla gente
I titoli di testa ci trasportano a una vestizione della celere, che ricorda molto una scena di Rambo. La celere, una volta pronta, affronta alcuni lavoratori che manifestano. Proprio nella scena della manifestazione viene introdotto un altro personaggio, Spina, che si rivelerà essere il protagonista del film. Il nostro percorso nel mondo della celere, percorso empatico e fisico, lo faremo al suo fianco. Spina parte male, e dopo aver ferito uno degli scioperanti si scontra con il gruppo, con la famiglia della celere (interessante come Sollima,da vero conoscitore dell'italianità, sia nella serie Romanzo criminale, che qui, dia la priorità alla tendenza familistica italiana, declinata in chiave di machismo e amicizia virile: gli amici del Libano sono una famiglia, così come la squadra in cui Spina deve entrare). Sul cellulare Ducato della celere  viene impartita a Spina una prima dose di educazione alla celere che si configura in alcune regole figlie di nonnismo e cameratismo: qua non ti siedi. E nemmeno qua. Tu non conti (ancora) nulla.
Solo un vero e proprio rito punitivo/iniziatico vedrà Spina rinascere (anche figurativamente, emergendo dal parabrezza del furgoncino bianco), e solo allora sarà accettato dal gruppo. Dal branco. Dalla famiglia, che vera famiglia non è, perché il legame è fisico e mentale, ma non di lignaggio. Questa famiglia è ben rappresentata dal muro dipinto da Cobra in caserma: questa rappresentazione storica-sacra-leggendaria, di una legione di guerrieri romani dotati di caschetto da celere, che trasuda riferimenti alla gloriosa Roma e alla mitologia ricreata e (ab)usata dal fascismo che stupidamente si trascinano ancora oggi. Una mitologia che ritroviamo nella celere, perché effettivamente i poliziotti sono dotati di elmi, scudi, e si muovono un po' come i legionari dell'antica Roma. Sempre restando nella capitale è interessante tirare un filo rosso che collega Alemanno e il PdL, esplicitamente mostrato nella campagna elettorale rappresentata nel film (la sua facile demagogia a tema sicurezza e promesse), al sistema familistico-clientelare(e di raccomandazioni) che si ritrova già nel fascismo (consiglio a riguardo Il fascismo degli italiani di Patrizia Dogliani) e, prima ancora, nell'antica Roma, appunto. (consiglio il testo di Luciano Perelli La corruzione politica nell'antica Roma). Per non parlare degli anni della DC e della fine della prima Repubblica. Insomma è proprio connaturato al DNA italico (e alla nostra storia) questo sistema che si fonda sul vincolo parentale e sulla raccomandazione, mentre il resto della società è lasciato ad arrangiarsi. A scannarsi.
Osservando gli uomini in divisa nelle loro ore libere, l'elemento che emerge preponderante è la solitudine, una grande solitudine, che cresce accanto alla sfiducia e alla disillusione. Alla certezza che nulla, in primis per chi serve lo Stato, abbia più senso. E questo genera rabbia, frustrazione, odio. Sentimenti facilmente indirizzati, incanalati, in icone e motti obsoleti, sciocchi, ignoranti e utili al potere per mantenere le distanze (e i privilegi) da questa macelleria tra poveri. La politica, il Palazzo, ormai rappresentato come irrimediabilmente sordo e privo di ogni funzione reale verso gli elettori, verso il popolo che rappresenta e che lo serve. Un popolo vittima di ogni sopruso, ormai abituato a voltare la testa, a vivere nell'illegalità, nella sfiducia e nella violenza della vendetta, senza mai una richiesta e una volontà di giustizia oggettiva.
Questi stati d'animo sono ottimamente rappresentati da quella che potremmo giocosamente definire la "poetica delle sbarre": le sbarre dietro a cui si ritrovano molto spesso i personaggi del film (e la mdp), gabbie mentali e fisiche in cui si siamo chiusi noi italiani da troppo tempo. Le stesse gabbie che portano a una capacità cognitiva da tifosi, dove si è tutti bastardi o eroi, buoni o cattivi, peccatori o pii, vittime o carnefici, fascisti o comunisti. Ecco qual è il problema che emerge fortemente dal testo: occorre riproblematizzare gli eventi, i fatti di cronaca, cercare di capire senza schierarsi immediatamente, capire che ruolo deve avere lo Stato, la polizia, la celere, un ruolo che si è completamente smarrito, e ai cittadini pare vada bene così. La polizia deve mantenere i cittadini al sicuro e preservare la democrazia, e allora perché hanno massacrato i ragazzi alla Diaz? Allora perché i cittadini si sono abituati a odiarli, ad affrontarli nelle piazze, come se il vero"nemico" fossero loro. E già parlare di nemico è errato, perché vuol dire partire da una logica manichea di buoni/cattivi, quando il ragionamento, forse, dovrebbe essere (e divenire): lo Stato chi rappresenta e chi deve rappresentare? Lo Stato è l'espressione del popolo intero, niente di più. E per ottenere questo bisognerebbe lottare, ma poi ci si ricorda che l'Italia è fatta di famiglie, di vincoli parentali e clientelari, in cui elemosina, scambi e servilismo sono all'ordine del giorno. E rieccoci a bordo della giostra fatta di frustrazione, vendetta personale e ingiustizia, perché accettando tale sistema siamo noi i primi a commettere ingiustizie e a vivere nell’illegalità.
La figura paterna più vecchia è messa in scena da Mazinga: stanco, disilluso, colluso. Si sente un fallito, con un figlio che non capisce e non conosce, e con anni di violenza utili solo a peggiorare la società in cui (soprav)vive. Nelle sue espressioni emerge sempre la stessa domanda: per cosa ho fatto tutto questo?
Il personaggio di Cobra è l'unico, insieme a Mazinga (ma il suo non è un vero cambiamento, è stanchezza ed è un ultimo tentativo di salvare il figlio mai educato), a non cambiare nel corso del film. Il suo è sicuramente un personaggio eccezionale: unisce sensibilità e umanità (quando sente il bimbo piangere al campanello della casa occupata; il suo ruolo di forte collante che sedimenta il legame tra fratelli-celerini, le regole da far rispettare durante sgomberi e azioni in divisa) alle più violente e vergognose bassezze. Si identifica in icone fasciste (Mussolini in primis) e in slogan leghisiti-pidiellini (padroni a casa nostra) avvertendo dentro di sé una rabbia e una frustrazione crescenti. Un odio che si trasforma in sputi dal balcone, violenza cieca e protezione (a ogni costo, anche illegalmente) dei suoi colleghi. Il suo volto è solcato dalle rughe del dubbio, dell'infelicità, non somiglia per nulla al'iconografia usata dal fascismo per fare del Duce un'icona di forza, virilità e fierezza. Il suo sguardo cupo è spesso smarrito, specialmente nei momenti di silenzio che seguono il ricordo dell'episodio del G8 di Genova.
Negro è un personaggio più umano, più comune. Riunisce in sé la figura dell'uomo che ha sbagliato, e che continua a commettere un errore dopo l'altro. Istintivo, nevrotico, picchia la moglie, si scaglia contro alcune prostitute facendo esplodere al lavoro i suoi problemi privati, è il personaggio che più ricorda che anche i celerini hanno una vita, a volte piena di problemi, come tutti. E anche loro si trovano di fronte a un Palazzo che tace, a un ministro che sorride e annuisce, per poi lasciarli soli con le loro famiglie. Contro le loro famiglie. Negro però, dopo la scena del pestaggio-vendetta ai giovani fascisti, riesce a cambiare. Capisce che il suo ruolo è di padre-educatore, e che la cosa che conta non sono le piccole e inutili vendette su ultras e stranieri, ma l'amore che deve dare alla sua bambina.
Il vero eroe positivo del film è Spina, il ragazzo più giovane del gruppo. Spina che entra in polizia perché "fare a'guardia è un lavoro onesto", o almeno così credeva. Spina che deve nascondere ai suoi amici coetanei il mestiere che fa, che deve lavare la sua divisa piena di sputi nel monolocale in cui vive con la madre. Spina che colpisce il politico che gli fa da sempre promesse sulla casa popolare che gli spetta di diritto (anche se parlare di diritti, in Italia, fa sempre ridere), indirizzando una rabbia individuale sul "bersaglio giusto", senza ottenere alcun risultato, ovviamente. Spina capisce, ma solo dopo avere vissuto nella celere, fianco a fianco coi colleghi, bombardati e accoltellati allo stadio, lasciati soli a vomitare bile nei loro appartamenti cupi. La scena chiave del film, quella della vendetta per la coltellata subita da Mazinga, esemplifica al meglio i contenuti di cui stiamo parlando:
una scena agghiacciante, in cui la violenza esplode sulle note di Where is my mind dei Pixies (già udita nel finale di Fight club), una violenza rappresentata senza compiacimento, che risulta essere un atto inutile, ma unico mezzo conosciuto da questi uomini per "ottenere una (non)giustizia" fai da te. Spina, come aveva già fatto a casa della moglie di Negro (e come avevamo visto fare a sua madre durante il pestaggio dei rumeni al supermercato), osserva la scena, si fa spettatore guardante, non prende parte se non visivamente (proprio come noi spettatori) al pestaggio. Non c'è montaggio, c'è solo osservazione della brutalità, una violenza che si fa epifanica quando, finalmente, Mazinga si trova faccia a faccia con suo figlio.


In questa scena che altro non è che una Diaz episodio due (e poco importa nel contesto di analisi filmica se stavolta i giovani sono degli pseudo-fascisti), una macelleria messicana in cui i padri massacrano i propri figli, in cui emergono chiaramente le falle di una non-educazione fondata sull’odio verso gli altri, sull'abbandono, sul cattivo esempio. Quel gioco di sguardi racchiude l'intera pellicola, fermando per un attimo ogni pensiero e ogni azione, trasportandoci in un mondo altro, in una dimensione di pensiero assai più profonda dei cori da stadio, delle celtiche e dei manganelli. Il finale di questo "ragionamento" avviene nella scena successiva, quando Mazinga si specchia nel bagno di casa sua, e finalmente fa i conti con la sua identità di uomo, di padre: l'unica cosa che può fare, ora che è stato visto, scoperto (a riguardo interessante rivedere A history of violence di Cronenberg, specialmente la scena finale), è prendere a pugni sé stesso, massacrare (con la violenza, anche qui) la sua immagine negativa, quella che ha contribuito a rendere suo figlio ciò che è.
Mazinga e lo specchio: identità e riconoscimento
Il film potrebbe terminare con un'accusa forte ai genitori, allo Stato e alla polizia, ma invece la storia non si ferma qui. C'è ancora la storia di Spina, che ha assisitito al pestaggio e che vuole affidare i colpevoli alla giustizia, quella vera.
Salvati finchè puoi, non diventare come me
C'è Spina che non ci sta ai ricatti fatti da Cobra e gli altri (abbiamo le lame dei fasci, non possono denuciarci), è necessaria la figura positiva di un giovane che esca da questo microcosmo di ricatti, infamie, omertà, vendette e violenza privata, che restituisca alla giustizia e alla divisa il loro ruolo.

Spina con Cobra dalla moglie di Negro, solo vivendo le
cose puoi capire cosa è Giusto e cosa no



Spina fa rapporto, denuncia i suoi colleghi, la famiglia di cui non ha mai fatto veramente parte. Facendolo viene sospeso, e i colleghi gliela fanno pagare immediatamente coprendolo di insulti e intimidazioni. Ora è fuori dal branco, ma è indubbiamente lui limmagine vera della giustizia, lui che ha fatto un percorso empatico che lo ha portato (e noi con lui) a capire molte cose sulla società e a schierarsi senza calcoli opportunistici per un domani diverso. Spina che saluta Cobra con uno sguardo, da uomo a uomo,

Madre di Spina al supermercato assiste al pestaggio,
ci immedesimiamo nel suo sguardo spaesato
ma Cobra non uscirà forse mai dal suo ruolo, dalla sua impostazione mentale, e sale sulla camionetta fingendo di non riconoscerlo. Sale per andare a farsi massacrare, per concedersi a chi vuole la vendetta per Gabriele Sandri, in una giostra al massacro in cui lo Stato abbandona le forze dell'ordine contro gruppi pilotati da interessi che vanno ben oltre il calcio e la violenza. E noi, cittadini-spettatori, ci siamo abituati a schierarci, persino a fare il tifo, perdendo completamente di vista il ruolo dello Stato, e il nostro ruolo, nella società. A.C.A.B. ci mette di fronte ai nostri errori, a un decennio fatto di grida e violenza. A.C.A.B. è un monito a rinnovare i nostri schemi mentali, a chiamare le cose con il loro nome e a prenderci una volta per tutte le nostre responsabilità di singoli: padri, madri, figli.

AF, e grazie a Dino Santoro


Il cambiamento di Spina, che non accetta questa falsa "giustizia"
Spina considerato un traditore dal branco-famiglia, se ne va a testa alta 

Lo sguardo di Cobra che non riconosce Spina
"Io volevo un lavoro onesto. voi non siete più un cazzo che vi parate il culo e sputate sulla divisa"