14.3.12

EXTRA: Enter the void

Una baracconata perversa che difficilmente dimenticheremo.


Siete mai stati a spasso per le vie di Tokyo in trip lisergico? Non temete, non ce n’è più bisogno. Sarà sufficiente guardarsi questo interminabile film di Gaspar Noè per vivere un’esperienza assolutamente fuori dal normale.
Enter the void inizia come una bomba di adrenalina. I titoli di testa supercool ci introducono a pugni negli occhi in una Tokyo notturna fatta di droga, sesso e neon pulsanti. Partiamo dalla struttura narrativa: il film è diviso grossomodo in tre parti. La prima, tutta in soggettiva, la viviamo dal punto di vista di Oscar (quindi l’Io narrante che si fa Io visivo, con tutti i relativi limiti di visione). Questo succede finchè una pallottola della polizia non accoppa il nostro protagonista, il suo sguardo (che è anche il nostro) si scolla dal suo corpo, lui si vede morire e la macchina da presa si fa sguardo dall’alto, onnisciente. In realtà questa seconda parte, giocata quasi esclusivamente sul passato del protagonista, ci racconta quello che ha preceduto la sua morte – dall’infanzia a oggi – avvalendosi della terza persona: lo sguardo è quello ectoplasmatico, in trip, del protagonista che guarda sé stesso, che rivive alcuni momenti chiave della sua esistenza, e si guarda di spalle. Il terzo sguardo ritorna a raccontarci il presente: è lo sguardo ubiquo, che tutto può e tutto vede, lo sguardo perverso che può scoparsi tutte le donne, che passa attraverso i muri, che spazia da una vita all’altra. È lo sguardo di dio, dell’uomo invisibile, uno sguardo da videogame e da Google earth. Lo sguardo onnipotente che si introduce nei singoli Io e nelle stanze di ognuno di noi. L’ultimo sguardo (e qui abbiamo davvero perso il conto, perché senza limiti di visione umana lo sguardo è mutevole e non incasellabile) è quello soggettivo dell’Io mutilato, lo sguardo di Oscar che si risveglia nell’obitorio e che non viene riconosciuto dalla sorella. In realtà non si può etichettare questi sguardi, si può solo censirli in questo modo, proprio perché dalla morte in poi lo sguardo si fa trip, viaggio nell’oltre, nella visione più folle e totale. Non si è più sicuri di nulla e ci si deve abbandonare a quello che scorre sullo schermo.
Fin qui tutto bene, il problema è che il film dura più di due ore e mezzo, e al di là della cecità provocata da tutto quel lampeggiare (spesso eccessivo e inutilmente ripetitivo), i movimenti di macchina da estetica videoclippesca di Noè finiscono con l’appesantire l’arca e farla colare a picco.
Enter the void non è un film, è un’esperienza, ed è un’esperienza che anticipa il The tree of life di Malick. I due film in un certo senso si assomigliano, vanno a parare nell’initmità degli individui, nel ricordo, nei traumi e nella – passatemelo – perdita dell’innocenza. La differenza è che Malick fa cinema con la C maiuscola (i suoi sono movimenti di macchina sinuosi – al di là del fatto che piacciano o meno - non ci si stanca mai di quegli ambienti, di quei movimenti dolci e dinamici, di quelle musiche), mentre quello di Noè sembra un infinito videoclip in cui tutto è concesso. La macchina che gira a 360° (parleremo in seguito della figura del cerchio), i trip di luce fini a sé stessi e insopportabili, la provocazione del feto morto (che in questo contesto appare come una cosa tra le tante altre possibili, quindi priva di efficacia).
Enter the void è un’esperienza, è l’esperienza dell’acido, della morte, in una società rappresentata come violenta e ostile, una società dominata dal senso di morte e dall’impotenza degli individui (l’incipit spiega bene il contesto), esseri che vivono isolati e avvertono l’assenza di dèi lontani e sadici, un vuoto (void) che porta questi giovani a consumarsi rapidamente all’interno del flipper metropolitano.
Noè non ha molte cose da dire, per questo, ciò che all’inizio lascia con la bocca spalancata, finisce per far sbadigliare (se non per farci pregare che arrivino i titoli di coda).
Tra le figure ricorrenti, oltre alla reincarnazione e al vagare lisergico (“vuoi dirmi che siamo incastrati in questo mondo?” chiede Oscar ad Alex, e l’aggettivo sottinteso è Di merda) che concedono vie di fuga provvisorie, ecco alcune figure che ampliano la prospettiva, pur restando nell’ambito della inevitabilità: il loop, il cerchio, la ripetizione. La figura del cerchio che ricorda l’inevitabilità, ma anche l’interconnessione delle persone, dei luoghi, delle situazioni. Il loop dei ricordi e delle sensazioni che ci catapultano dal seno materno alla morte dei genitori, dalla scopata con la madre dell’amico all’uso delle droghe, un continuo rimbalzare (ancora il flipper) tra situazioni di amore/protezione a situazioni di morte/perdita. Amore e morte, sicurezza e perdita, un viaggio nell’Io malato e tossico della contemporaneità, un Io che vuole stordirsi sino a perdere il senso della realtà, una realtà triste, composta da una serie di perdite e traumi, in cui appare impossibile amare e ricostruire una famiglia felice (quante volte i fratelli si ripetono: Non lasciarmi e Non moriremo mai, come se ci fossero infinite possibilità di riscatto). Un Io sopraffatto dalla paura di vivere che fugge in continuazione dalla realtà (e qui torna in mente l’indimenticabile Sangue- la morte non esiste di De Rienzo). Un Io che diviene sguardo senza confini, perverso, che penetra (Enter) buchi (altra figura ricorrente): tunnel, corridoi, vie, vagine (in particolare quella della sorella e quella materna, nella coronazione visiva di un mega-complesso edipico), ferite, fori di proiettile, forni crematori, posaceneri, lampadine, fornelli e persino un feto. Elementi caldi, luminosi, vitali, che richiamano un senso di piacere e di protezione, che consentono allo sguardo del film di spostarsi da un luogo all’altro, come se quelli non fossero altro che connettori, condotti vuoti di energia pura, esattamente quelli di cui parlava il Jim Morrison di Tempesta elettrica.
Questo tentativo di fuga da sé e dalla realtà, che porta direttamente all’ultimo viaggio (quello verso il forno crematorio), termina con la coronazione dei sogni di Oscar: entra finalmente nel palazzo dell’amore, in cui riesce a vedere tutti quelli che conosce fare sesso (aveva parlato di questa visione-sogno proprio durante il film). In quel palazzo simbolico tutto è possibile: trovare l’amore vietato, vedere gli altri farlo, riscoprire la tanto sognata e desiderata famiglia. Lì dove è possibile che tutto finisca e che tutto ricominci, ritornando al loop esistenziale: la reincarnazione. Il film si chiude con lo sguardo sfocato di un neonato, e il capezzolo rosa di Linda, la sorella di Oscar. L’Io ritorna piccolo e innocente, pronto a ripiombare in quel carosello di emozioni, piacere, amore, sofferenze e morte che è la vita.
Finalmente l’odissea allucinogena di Noè all’interno del vuoto esistenziale è finita. Nemmeno la morte ci salverà dall’infelicità. Per fortuna invece il film finisce con il classico schermo nero dopo i titoli di coda.
Quello che viene da pensare è che non abbiamo visto un grandissimo film, ma sicuramente abbiamo vissuto un’esperienza che difficilmente dimenticheremo.

LO TROVATE: forse in sala (da noi è uscito solo lo scorso dicembre, magari passa in qualche rassegna, vale la pena vederlo in sala!), per ora niente dvd. Si trova sul web sottotitolato.



AF

Nessun commento:

Posta un commento